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LENINGRADO ADDIO
Il comunista che amava l’Arte




 
Romanzo

 



Belisario Righi

 


* * * 

 


 

​​Così, il sovietico Viktor Andreievic Kravchenko, nel suo libro HO SCELTO LA LIBERTA’, descrive il tumulto dei sentimenti che si agitano nel proprio animo, allorquando sta fuggendo dalla patria.

Da molto tempo avevo compreso che quell’ora decisiva sarebbe suonata, inevitabilmente. Da mesi e mesi avevo preparato quella fuga, di cui accarezzavo il progetto come l’unico mezzo per sottrarmi al labirinto di ipocrisie, di rancori e di errori nel quale avevo vagato per una serie interminabile di anni. L’evasione, lo sapevo, era per me il solo mezzo per espiare tutti gli orrori di cui mi sentivo colpevole in quanto membro della classe dirigente del mio paese. Ora però, nel momento stesso in cui la fuga diventava un fatto compiuto, non sentivo nessuna gioia, nessun entusiasmo davanti alla libertà che mi si rivelava. Sentivo in me soltanto un vuoto atroce, in mezzo al quale i miei terrori e i miei rimorsi si agitavano e si ripercuote vano con tale fragorosa violenza che mi sembrava di raccoglierne l’eco. Così, mi dicevo, eccomi sul punto di tagliare la mia vita alle sue stesse radici, irreversibilmente. Per sempre forse. Ogni ora che passa mi trasforma sempre più in un uomo senza patria, senza famiglia, senza amici. Non rivedrò più i miei parenti, i miei amici, tutti coloro che sono la carne della mia carne e il sangue del mio sangue; non stringerò più le loro mani, non sentirò più le loro voci. Esattamente come non esistessero più. Qualcosa d’infinitamente prezioso è dunque morto in me. D’ora in avanti, la mia vita sarà muta e vuota per sempre, irremissibilmente! Per i cittadini del mio paese non sarò più se non un funzionario decaduto e un paria. Automaticamente, il regime politico al quale ho sacrificato tutta un’esistenza di lavoro e di fede, pronuncerà contro di me una condanna a morte. Nel mio paese, coloro che hanno lavorato con me e mi hanno concesso la loro amicizia, senza parlare di quelli che mi hanno voluto bene, resteranno per sempre sotto l’ombra del sospetto. Se vorranno sopravvivere, dovranno distruggere anche il ricordo che conservano di me. Avevo il diritto di compromettere quegli ostaggi innocenti rimasti in Russia e di esporli al pericolo, soltanto per poter soddisfare la mia coscienza, recando il mio tributo personale alla verità, quale appariva ai miei occhi e alla mia mente? Questo era senza dubbio il più doloroso problema. Che ne penserebbe mio padre, quel fanatico della Rivoluzione russa? Nessun uomo libero ne sono certo, può spiegarsi come, per il cittadino di un paese totalitario, tutto ciò sia il “delitto” più spaventoso che si possa immaginare per le sue ripercussioni e le sue conseguenze. Un gesto simile costituisce la suprema apostasia che si possa commettere al cospetto di un dio terrestre. Non solo chi l’ha commessa si trova trasformato ufficialmente in un relitto, in un povero diavolo i cui giorni sono contati, ma non gli è neppure consentito di corrispondere con coloro che ama e che sono rimasti nel paese nativo. La sua fronte porta il marchio di Caino, poiché qualunque cittadino sovietico si condannerebbe a un vero suicidio politico, nonché al suicidio tout court, se osasse avvicinarlo o attestargli la minima simpatia. La decisione che avevo preso non era di quelle che un cittadino sovietico possa prendere alla leggera, sotto un impulso improvviso; la cosa era diversa, specialmente per me, comunista di vecchia data, che ricoprivo un posto elevato nell’amministrazione. La mia risoluzione era uno di quegli atti le cui radici profonde sono nascoste giù nel substrato dello spirito, ma lentamente spingono innanzi le loro diramazioni finché non è più possibile distruggerle. Le ragioni che spiegano gesti come il mio non si trovano mai in superficie, bisogna frugare in profondità per scoprirle nel cuore stesso dell’uomo e della sua vita.


 


 

LENINGRADO ADDIO

 


 


CAPITOLO 1

 

Come un gigantesco ragno che ghermisce la preda tra le zampe, l’intricata ragnatela dell’edera avvolgeva la squarciata volta del rudere, luogo di culto d'una remota deità pagana. Sull’unica sopravvissuta parete di mattoni muscosi, invasi dall’erba parietaria, l’ingresso del tempio, arditamente innalzato ad arco a tutto sesto, si ergeva come un’orrida ferita nera, inferta nell’epidermide di un preistorico animale. Alla base del rudere piccoli cumuli di laterizi sfaldati, ricoperti di felci, rami secchi, foglie morte, mostravano la lenta, inesorabile decomposizione del santuario, opera dell’incessante azione distruttrice del vento, della pioggia, del tempo. Quelle vestigia architettoniche, appartenenti ad un mondo ormai estinto, conservavano intatta tutta la loro bellezza originaria e proprio quell’antico commovente richiamo ad un splendore trascorso aveva così affascinato Adrian da indurlo ad acquistare la casa prospiciente, ove ora viveva. Era il suo capriccio. Amava osservarlo seduto in poltrona sotto il portico dell’abitazione, avviluppato in una calda coperta al riparo dal freddo dell’inverno. Guardava l’ombra delle nuvole che, sospinte dal vento, correvano veloci sulla campagna, ammantando di plumbeo grigiore strade, colline, campi, alberi, filari di viti, case lucenti di algidi raggi di sole. Scorrevoli immagini, danzanti tra luce e ombra, fugacemente fluivano, trascinandosi dietro empatie che odoravano di passato, mentre nella sua mente prendevano forma memorie lontane e vicine. Avanti agli occhi dell’anima, vedeva muoversi in lenta processione brani della sua vita altalenanti tra luce e buio. Sotto la sferza del gelido vento olezzante di pino, ricordò l’iperborea aria del Baltico, profumata del silvestre aroma delle betulle, che a Leningrado lungo le rive della Neva sentiva scendere fresca nei polmoni. Ormai novantenne, riviveva i trascorsi momenti della propria vita. Si rivide ragazzo. La sua memoria travolta da un empito di nostalgia navigava tra mille ricordi ancora fulgidi e palpitanti di emozioni, e su gioie e dolori, successi e fallimenti, come una stella brillava l'amore per l’arte, iniziato un giorno lontano, al museo dell’Ermitage. I suoi pensieri andarono a quella prima, fatale visita al Museo. Aveva solo sedici anni.

 


 

CAPITOLO 2

 

L’Ermitage, la cui costruzione iniziò nel 1762, dopo circa sessant’anni dalla fondazione di San Pietroburgo, è una delle collezioni d’arte più grande del mondo, ricco di un patrimonio artistico immenso che si sviluppa su trenta chilometri di percorso espositivo. L’imperatrice Caterina II La Grande, con l'acquisto di capolavori olandesi, francesi fiamminghi, italiani, spagnoli, dette l’avvio all’imponente collezione di opere d’arte contenute nel Museo. Il nucleo centrale del complesso architettonico, costituito dal palazzo d’inverno degli zar che si specchia sulla Neva, è stato progettato dall’architetto Italiano Bartolomeo Rastelli. Il Museo si trova sulla prospettiva Nevskij, la storica via di San Pietroburgo celebrata da Dostoevskij, Puskin, Gogol ed altri grandi scrittori russi, oggi sito dichiarato Patrimonio dell’Umanità. Il padre di Adrian, Boris Tarasov, decoratore addetto alla manutenzione degli stucchi dell’Ermitage, stimato e apprezzato dalla Soprintendenza del Museo, grazie alla qualità del suo impeccabile lavoro, era ansioso per l’avvenire del figlio, avuto in età ormai avanzata dalla sua più giovane moglie e sapendo di non poter contare ancora per tanti anni sul proprio impiego, chiese al Sovrintendente il permesso di portare il ragazzo con sé nei giorni liberi dalla frequenza scolastica perché acquisisse la tecnica del restauro, confidando che, raggiunta una buona padronanza nella disciplina, avrebbe potuto trovare impiego nel Museo. Il Sovrintendente, ritenendo l’apprendimento di attività manuali parte integrante dei programmi scolastici ufficiali, di buon grado accordò la richiesta e quotidianamente Adrian iniziò ad accompagnare il padre al Museo per imparare il mestiere di decoratore, esercitandosi a preparare la malta nel giusto contenuto di acqua, mescolata a precise quantità di calce e polvere di marmo, apprese inoltre a maneggiare la spatola per la stesura dello stucco, servendosi degli strumenti necessari per modellarlo. All’Ermitage gli addetti alla manutenzione avevano accesso da una porta di servizio, dalla quale Adrian entrava per andare nel laboratorio del padre ove attendere alle sue mansioni, ma un giorno, desideroso di vedere il Museo, eludendo la sorveglianza dei portieri, imboccò l’entrata principale e si trovò nell’atrio. Nell’ingresso di grandiose dimensioni, arricchito da arcate, colonne corinzie, marmi colorati, ampie finestre, stucchi e fregi dorati, una marmorea imponente scala bianca, a due rampe laterali riunite in una balconata alla sommità, immetteva nelle sale colme di opere d’arte. Con lo sguardo trasognato la risalì. Procedette lungo brillanti corridoi intarsiati di marmi di Carrara, onici variegate di rosso, verdi malachiti dai riflessi smeraldini, ossidiane blu e nere, sotto affrescate volte a botte. Ai lati, vetrate a tutta parete rischiaravano corsie, corredate di statue, busti, arazzi, che sfociavano in saloni immensi, dai cui soffitti a cassettone pendevano enormi lampadari di cristallo, avvolgenti di morbido lucore dipinti, bronzi, sculture. In un tripudio di chiarore, meravigliosi capolavori si mostrarono agli occhi, ignari di tanta bellezza, del giovane Adrian, sedotto nel suo incedere da tanta magnificenza intorno a sé. Cresciuto nella modesta abitazione di un operaio non conosceva il lusso, tantomeno la fastosità di una reggia e al suo interno, le ostentate sontuosità e ricchezze del palazzo d’inverno degli zar non lo coinvolsero in nessuna sensazione; le opere d’arte che apparivano ai suoi occhi invece, sebbene non avesse adeguate cognizioni artistiche per apprezzarle, riversarono nel suo animo tutta la perfezione e bellezza di cui erano capaci. A quella dolce violenza Adrian provò un piacere intenso, completo, di cui non seppe darsi spiegazione, dal quale tuttavia trasse la certezza che di quel mondo, di cui sino a quel momento aveva addirittura ignorato l’esistenza, avrebbe percorso ogni strada che lo avrebbe portato ad esserne parte. La perfezione di quelle opere lo ammaliò, l’ineffabile meraviglia di quelle magiche visioni lo rapì. Gli furono assegnati alcuni piccoli lavori che portò a termine egregiamente. Stava diventando capace e anche bravo. Suo padre ne era appagato, felice per aver indirizzato il figlio sulla strada di un rispettabile avvenire, ma Adrian aveva altri interessi. Dedicò parte del suo tempo, rubata al lavoro, ad ammirare ogni sorta di capolavoro artistico del Museo. In lui era sbocciato il fiore della bellezza che ravvisava fulgida e ineguagliabile solo nell’arte. Il tempo trascorso all’Ermitage l’aveva cambiato. Il suo spirito ne era toccato, ne traeva un mai provato godimento spirituale che sentiva crescere in sé di giorno in giorno, al cui confronto niente gli sembrava più appagante, fino a quando divenuto travolgente fu assolutamente certo di non volere quell’occupazione, sicura, ben retribuita, caldeggiata da suo padre. Terminate le scuole superiori e con esse l'apprendistato, era ormai pronto per iniziare a lavorare come decoratore nel Museo, però non era suo intendimento dedicare la vita ad attività manuali e volle proseguire negli studi. L’Università era la sua meta, non per mera ambizione, ma per sua coscienza politica.


 

​CAPITOLO 3

 

Poco più che bambino, il padre lo aveva voluto nella sezione giovanile del PCUS. C’erano tanti ragazzi. Adrian ne fu contento. Frequentava la sezione con assiduità, felice di essere inserito in qualcosa di importante di cui ancora non capiva le finalità. Alle riunioni era sempre presente, pronto a prestare diligentemente la sua opera, volenteroso di offrire il suo modesto apporto alla causa. Nei dibattiti interveniva frequentemente con osservazioni personali che seppur denotanti grande interesse per il problema in discussione, talvolta erano inappropriate, ma presto i suoi interventi divennero più pertinenti, più precisi. Iniziò a ragionare con competenza, guidato da una dialettica del tutto insolita per un ragazzo della sua età, che gli valse il rispetto e l’ammirazione dei suoi compagni. Stava diventando un modello da imitare, una guida. I superiori, notato questo suo ascendente sui suoi giovani compagni di sezione, accrebbero il loro compiacimento nei suoi confronti, tenendolo in considerazione per incarichi di riguardo quando si fossero presentati. Il PCUS - Partito Comunista dell’Unione Sovietica - sviluppatosi essenzialmente nel proletariato, nonostante sin dagli inizi parecchi intellettuali vi avessero aderito, aveva bisogno di gente erudita. Adrian, per poter servire al meglio il Partito, cui era molto devoto, sentì il dovere di diventare una persona colta, anche se questa scelta avrebbe arrecato grande dispiacere al padre che tanto aveva desiderato per lui un avvenire sicuro e, pur con tanta amarezza nel cuore, si iscrisse alla facoltà di lettere dell'Università di Leningrado. Nel 1958, aveva ventitré anni, si laureò con una tesi sul Rinascimento italiano. Per non pesare più sulla famiglia che, con molte difficoltà, aveva provveduto alle sue necessità negli anni di studio, doveva trovarsi un lavoro. Pensò fosse il momento giusto di incassare il credito accumulato in seno al Partito, chiedendo un impiego consono alla sua formazione culturale. Il Partito con amabilità rispose alla sua richiesta di aiuto. Il momento di far salire quel giovane erudito intellettuale ai piani alti del Palazzo era arrivato e, come inizio, gli venne offerto di insegnare arte moderna nel liceo statale della città. Insegnare gli piaceva, ma per la sua scolaresca voleva essere più di un insegnante. Di provata fede bolscevica, era altresì suo desiderio creare negli allievi una solida coscienza civile radicata nella fede socialista, la fede che in lui riluceva splendente come una gemma. Il liceo doveva rappresentare la fucina dove forgiare le menti della nuova Russia. Era ambizioso? Sicuramente sì, ma solamente quello era il modo in cui avrebbe potuto attendere al suo compito di precettore. L’arte e il suo studio erano stati insostituibili e fondamentali per la propria formazione intellettuale, ma non necessariamente dovevano esserlo per i suoi allievi, mentre una solida e ben costruita coscienza socialista era assolutamente indispensabile per la loro educazione. Le sue lezioni, di alto livello qualitativo, erano molto apprezzate dal Direttivo del liceo. I dirigenti politici, per l’indottrinamento politico che i suoi insegnamenti impartivano, avendo notato quanto impegno vi profondeva, ritennero doveroso utilizzare le sue capacità pedagogiche ad un livello superiore. Il caso volle che a breve, per sopraggiunti limiti d’età dell’attuale docente, la cattedra universitaria di Storia dell’arte si sarebbe resa vacante e fu proposta ad Adrian, a condizione che entrasse nel Comitato Direttivo del Soviet di Leningrado, ove la sua cultura nonché la sua ferma convinzione politica sarebbero state preziose. La militanza nel Soviet, la docenza di Storia dell’arte erano entrambi incarichi di alto prestigio, per contro l’obbligo di doversene occupare contemporaneamente richiedeva un gravoso impegno. Avrebbe dovuto lavorare tanto, però la docenza universitaria, coronamento di anni di studi ed espressione più alta della sua grande passione, era un richiamo troppo suadente e Adrian, considerando un alto privilegio servire attivamente il Paese, accettò la docenza. L’URSS, causa l’enorme estensione del territorio, nonché l’eterogeneità delle repubbliche che la costituivano, aveva gravi difficoltà di gestione amministrativa. Stalin, sin dall’inizio della sua ascesa al vertice nel 1924, dopo la morte di Lenin non si accontentò di imporre su tutto il territorio russo l’ideologia marxista-leninista, volle soprattutto tenere ben saldo nelle sue mani il potere che esercitava ferocemente, ricorrendo all’eliminazione sistematica dei suoi avversari politici, nonché a deportare nei gulag siberiani chiunque fosse sospettato di sovversione o di dissenso. Per questa sua politica repressiva doveva avere il controllo totale su tutti e su tutto e per ottenerlo si serviva di ogni organo di polizia presente nel Paese, in particolare della censura, estendendola a tutte le attività intellettuali: letteratura, arti figurative, musica. Prima di arrivare al potere Stalin era stato giornalista, anche piuttosto esperto e sapendo benissimo cosa possa nascondersi tra le parole di un articolo o di un libro volle implementare l’organico del Glavlit, l'ente preposto al controllo delle pubblicazioni editoriali, con una sezione dedicata esclusivamente alla lettura e all’interpretazione concettuale di libri circolanti sul territorio sovietico. Adrian sembrava tagliato su misura per esservi inserito. Gli studi di lettere e la cultura artistica erano ottime credenziali per ricoprire un ruolo di primaria importanza. Gli venne assegnata la carica di direttore della sezione Opere Letterarie E Artistiche, denominazione non proprio esatta, dovendo occuparsi delle opere, non in qualità di letterato, ma esclusivamente in veste di censore. Questo era il suo impegno come attivista politico, ma il Partito non faceva regali, non elargiva cariche e favori senza chiedere niente in cambio e poiché Adrian conosceva la lingua italiana per averla appresa da autodidatta durante gli anni universitari per gli studi sul Rinascimento, da lui si pretese che si interessasse anche della letteratura italiana. Nel dopoguerra del primo conflitto mondiale, tra l’Italia e l’Unione Sovietica si era avviato un dialogo culturale tra i due Paesi. In questo accordo, iniziato con lo scambio di relazioni diplomatiche propagandistiche, soprattutto con conferenze, documentari, film fu inserita pure la letteratura. Tale intesa culturale, tra le tante cose, prevedeva lo scambio di opere letterarie tra i due Paesi e se in Italia arrivavano scritti di autori russi, in Unione Sovietica apparivano lavori di intellettuali e scrittori italiani, ma prima di essere immessi sul mercato sovietico, dovevano essere analizzati. Adrian dunque doveva estendere la supervisione di controllo, già applicata agli scritti sovietici, anche a quelli italiani. Suo era il compito di giudicarli idonei di inserimento nella cultura ufficiale e se ritenuti conformi alle regole venivano tradotti, stampati e messi in commercio, al contrario, se considerati sovversivi ne veniva negata l’importazione. In sintesi, a lui era demandato il potere di approvare o respingere un’opera letteraria tra le cui righe si potevano intravedere eventuali pensieri anarchici e teorie contrarie al diktat ufficiale, affinché i cittadini del suo Paese leggessero soltanto scritti che non minassero minimamente l’ideologia governativa e non avessero alcun punto di contatto, nemmeno letterario con la politica, totale appannaggio dei potenti del Partito, in tal modo, addottrinati nella giusta maniera avrebbero rappresentato una classe sociale politicamente inerte. Il lavoro di Adrian aveva la finalità di creare per il popolo una cultura preconfezionata d’ispirazione orwelliana. Passando attraverso lui l’indottrinamento culturale e la conseguente formazione politica del popolo, Adrian Tarasov era divenuto uno dei divulgatori ufficiali della cultura di regime. L’esercizio della censura gli dava accesso a tutti gli archivi di Stato. Non c’era libro, articolo di giornale o altro tipo di scritto che non venisse attentamente esaminato, essendovi nella sezione Opere Letterarie E Artistiche uno stuolo di lettori, ricercatori informatici, impiegati addetti unicamente a tale servizio. Adrian però non era solo questo, era anche un inquisitore. Talvolta, quando la Polizia politica aveva fondati sospetti di dissenso su di uno scrittore russo in odore di eversione, sebbene i suoi lavori non ne evidenziassero la presenza, gli si chiedeva di essere sottoposto ad interrogatorio perché potessero venire alla luce tracce del paventato presentimento. Alla bisogna era stato addestrato a condurre gli interrogatori con un metodo ampiamente usato dalla Polizia politica, consistente nell’intraprendere con gli inquisiti argomenti di discussione non pertinenti l’indagine, ponendo domande appositamente costruite al fine di non destare all'interessato il sospetto di essere indagato e quindi, dalle dichiarazioni rilasciate in piena libertà dialettica, ricavare un preciso profilo ideologico del soggetto. Con la duplice attività di censore e inquisitore, acquistò stima e prestigio, arrivando al vertice della gerarchia del Partito e visse anni di successo nel benessere, soddisfatto degli obiettivi raggiunti. La sua attività gli concedeva l’opportunità di essere utile alla causa comune e al contempo i suoi saggi universitari, materia di docenza, lo legavano al mondo incantato dell’arte che da sempre lo affascinava. Realizzato nelle proprie aspirazioni e all'asservimento del suo credo politico, si sentiva appagato.



 

CAPITOLO 4

 

Era una bella favola, ma non ancora giunta alla fine e purtroppo nelle favole spesso arriva il momento in cui felicità e gioia mutano in tristezza e dolore. Quel momento arrivò con i movimenti di contestazione del ’68, i cui venti irredentisti soffiarono anche sulla Russia, dapprima accolti con compiacenza, essendo di ispirazione socialista, tanto che le icone rappresentative di quelle proteste erano Mao Zedong, Lenin, Stalin, Che Guevara, lentamente però si insinuano nella granitica fede comunista dei Paesi del blocco sovietico, portando l’URSS allo sfaldamento, dapprima con l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989, tre anni dopo con la politica di Eltsin al disfacimento totale. In quel periodo di tempo, Adrian cominciò a riflettere con senso critico sul Socialismo, ravvisandosi una evidente dicotomia tra l’identità ideologica e l'applicazione della stessa al consorzio sociale. La presa di coscienza di questo aspetto incongruente, mai prima intravisto nella dottrina ispiratrice dei suoi pensieri, lo fece sprofondare in dubbi nei quali si dispersero le certezze che erano state alla base della sua vita e avevano costituito lo stimolo a prodigarsi nel lavoro. Ora tutto quello che faceva gli sembrava inutile, peggio ancora, dannoso. Nel sistema politico ove viveva, procedendo dalla base verso l’alto, i privilegi e il divario economico tra gli strati della piramide sociale crescevano a dismisura. Non c’era livellamento, bensì esisteva, come nelle culture occidentali, disparità di mezzi e di trattamento. Le classi più burocraticamente elevate godevano largamente di favori e privilegi sconosciuti al resto della popolazione e nonostante dopo la dissoluzione dell’URSS si vivesse in un clima di maggior libertà, il Socialismo restava sempre lo stesso, per sua congenita costituzione. Nella sua magnifica lucidità Marx aveva perso di vista l’uomo e i suoi appetiti non tenendo conto che aderendo alla sua dottrina l’indispensabile burocrazia avrebbe generato disuguaglianza sociale, elemento dirimente delle convinzioni politiche di Adrian che nella burocrazia e nei burocrati vedeva netto il travisamento dei fondamentali principi del Socialismo, come già accadde in Russia dopo la prima rivoluzione nel febbraio 1917, quando rovesciato il potere zarista, i nascenti Soviet bolscevichi, sospinti dalle idee leniniste, nell'ottobre dello stesso anno avviarono la seconda rivoluzione assumendo definitivamente il potere e crearono nell’assolutismo, dove ogni traccia di democrazia scomparve, il primo regime comunista bolscevico in seguito ancora trasformato dopo la morte di Lenin, da Iosif Stalin, nuovo leader sovietico, il quale per avviare e governare i piani quinquennali per l'industria e l'agricoltura sullo sconfinato territorio dell'Unione Sovietica, istituì un piramidale e mastodontico sistema amministrativo burocratico, da molti storici definito la vera Terza Rivoluzione Russa. Adrian non si limitava a leggere soltanto le opere che gli erano imposte dal regime. Per sua erudizione personale, si interessava anche ad altro. Una delle sue prime letture non ufficiali fu il capolavoro di Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi. Nel romanzo, tra i tanti pensieri espressi, in particolare lo colpì quel passo in cui si dice: In questo mondo, si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche con lo star meglio. Questo pensiero, riposto in un angolo della sua memoria, fu lasciato lì a dormire finché un giorno, improvvisamente, come un flashback di conoscenza gli tornò alla mente e sebbene non avesse voglia di ragionarci sopra, gli era impossibile toglierselo dalla mente quasi fosse il motivo ricorrente di una canzoncina orecchiabile che, per caso riaffiorato alla memoria, si canticchia in continuazione. Quella frase, logica, razionale, adatta forse più a una mente illuminista che non romantica e cristiana quale quella di Manzoni, finì ossessivamente per occupare un posto in prima fila nella testa di Adrian. Cominciò a domandarsi cosa significasse veramente far bene piuttosto che star bene. Tale concetto nella mentalità di un comunista non ha senso, poiché l’individuo nel sistema socialista si identifica con la collettività, pertanto far bene in senso lato, nell’accezione purista dell’espressione, significa essere altruista verso la società, ma essendo la società composta da singoli individui dove sta il comportamento meritorio, trattandosi di un atteggiamento, in ultima analisi, diretto a se stessi? Quale fosse il significato di queste parole, logiche, quasi matematiche, non lo capiva. Non poteva capirlo, perché non aveva chiaro dentro di sé il concetto di bene e di individualità. Non aveva pensato che il bene e il male sono divisi da un piccolissimo diaframma costituito dalla nostra coscienza, dalla nostra sensibilità nel recepire i fatti della vita e nel disporli secondo un criterio che non è dettato dalla logica, bensì dalla nostra capacità di scelta, dal nostro poter scegliere, in sintesi dalla nostra libertà, libertà che Adrian non vedeva e pertanto non capiva, essendo nel sistema politico russo, tutto organizzato a priori, opportunamente predisposto e niente lasciato all'individualismo. Le uniche scelte possibili erano già state fatte dal sistema e ad esse bisognava adeguarsi. Non potendosi quindi ritagliare posizioni autonome, non condivise dal Partito, dove era la possibilità di far del bene, se non quello ufficiale? Attenendosi al pensiero manzoniano, per Adrian, la possibilità di stare meglio era irraggiungibile. Quella frase però gli piaceva, suonava bene. Sin dalla prima gioventù aveva ritenuto il marxismo-leninismo l'unica dottrina attuabile in società dominate dal capitalismo dove la ricchezza è finalizzata alla soddisfazione di piaceri personali, a dispetto di un’umanità che necessita dei più svariati bisogni. Pensava che il genere umano, mantenendo ferma la propria autonomia intellettuale e conoscitiva, dovrebbe avere una parità di trattamento sul piano contingente e che la ridistribuzione della ricchezza sia in assoluto la più alta e più giusta di ogni operazione sociale, ma la sua fede nel Socialismo gradatamente si affievolì. Un profondo senso di irrequietezza s’impossessò di lui, non lo abbandonò più. Gli studi, il lavoro, la politica lo avevano aiutato a scalare la montagna della vita, la cui impervia ripida ascesa conduceva al successo, ma alla sommità dell’erta salita, allorché finalmente quel successo che aveva rincorso gli arrise, si avvide che le tanto agognate mete raggiunte erano di scarso valore, niente avevano che ritenesse prezioso, anzi ebbe la certezza di aver sprecato la sua vita. Perché era diventato così? Si chiedeva quali fossero le cause che lo avevano trasformato in una persona diversa da quella che avrebbe voluto essere. Con una visione ottimistica del futuro, dominato dalla volontà di onnipotenza, investito di una virtuale immortalità, si era incamminato verso la conquista di un mondo che già vedeva genuflesso ai suoi piedi. Non prestò attenzione agli insegnamenti dei più vecchi ed esperti compagni di viaggio conosciuti lungo il cammino, i quali volevano metterlo in guardia dai pericoli che avrebbe trovato sulla strada che stava percorrendo e tentavano di mostrargli le difficoltà che avrebbe incontrato. Lui sapeva bene come gestirsi e le chiacchiere di chi aveva fallito non potevano interessargli. Nulla poté l’evidenza dei mille ostacoli da superare nella realizzazione dei suoi sogni, nemmeno mai scemò in lui la sicurezza che si sarebbero concretizzati. Vedeva nel suo futuro una vita ricca di soddisfazioni e soprattutto bella, pur sapendo quanto sia sbagliato credere nella bellezza della vita, perché dire che la vita è bella è soltanto una sineddoche, essendo la concezione della bellezza legata ad alcuni particolari piacevoli della nostra esistenza, attraverso i quali estendiamo il concetto di bellezza a tutto il nostro vissuto. Si vive in una realtà che certamente è bella, perché belli sono i suoi mari, i suoi laghi, i suoi fiumi, i suoi animali, belle sono le sue montagne, le sue valli, le sue campagne. In essa tutto è bello, perché la natura è bella e l’uomo vivendo in mezzo a tutta questa bellezza, finisce per identificare la bellezza della vita con la bellezza della natura, di cui però non può disporre, perché non gli appartiene. Il tempo che noi viviamo purtroppo non è scandito da mari, da laghi, da campagne, da boschi, ma da incombenze giornaliere che soffocano il respiro spirituale e rimandano ad attitudini spesso volgari, riducendo la nostra permanenza terrena ad adempimenti casuali, a volte persino disumani. Noi non siamo nati per essere felici. Siamo nati…e basta! Viviamo in una condizione di eterna diatriba, tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo costretti ad essere e la felicità, per quello che significa, potremo ambire o forse no, ma certo non è una delle pietre sulle quali è costruita la nostra esistenza, è piuttosto un fregio, uno stucco, con cui cerchiamo di impreziosire il nostro costrutto spirituale, affinché diventi più accettabile vivere. La vita, a ben guardare, è bella solo se attinge alla nostra bellezza intima, l’unica bellezza che veramente ci appartiene. Arrogante e volitivo si sentiva troppo forte per cedere al dubbio. Inavvertitamente però, un giorno dopo l’altro, aveva deviato dalla rigorosa rotta per giungere dove mai avrebbe pensato di arrivare. Era stato affascinante vivere la giovinezza, bersela avidamente come fosse acqua fresca, non tenendo però in conto di dover attraversare un deserto di milioni di chilometri quadrati, avendo per rinfrescarsi dalla calura del viaggio soltanto una piccola borraccia che, presto svuotata, l’avrebbe costretto a ridimensionare le sue aspettative. Quando questo avvenne, ormai non più giovane, si stava incamminando verso la maturità e sommessamente i suoi sogni divennero incubi che la notte gli impedirono di dormire. La meta agognata non era più la stessa, si era trasformata in una nuova, inaspettata realtà, diversa da quella desiderata. I suoi meravigliosi sogni di giovinezza si erano volatilizzati, immolati alle difficoltà dell’esistenza che insistentemente bussa alle porte della contingenza. Contingenza! Parola triviale evocante bisogno, dolore, imposizioni. In questa inaspettata condizione, gli si pararono innanzi ostacoli insormontabili e costretto a fermarsi non vide più il suo futuro con occhi speranzosi. Spenta l’abbagliante luminosità dell'irrealizzabile, dovette iniziare a confrontarsi con la bieca, vile realtà che più non mostrava i prodromi di un avvenire magnifico e lucente. Ai fuochi d'artificio che prima avevano illuminato le sue notti presero posto fioche candele, le cui tremolanti luci gli mostrarono il percorso arduo e pericoloso nel quale si stava addentrando. Militante in un esercito che mai avrebbe vinto la guerra, inesorabilmente rovinando verso la disfatta se ne era distaccato e libero dai lacci della coercizione, finalmente aveva potuto guardare avanti, credendo in un futuro migliore. Era diventato uomo e da uomo era arrivato dove ora si trovava, vivendo l’autunno della sua esistenza in un perpetuo rinnovarsi di stati d’animo opprimenti, inaccettabili, intrisi di melanconica mestizia, ma se il passato non era possibile cambiarlo, il futuro poteva essere diverso e, non così avanti negli anni tanto da non avere più desiderio di piegarlo alla sua volontà e insoddisfatto trascorrere quel che ancora restava del suo tempo, lasciò tutto dietro di sé, fermo nel proposito di essere un altro uomo. Ben inserito nel sistema burocratico statale godeva di comodità e vantaggi, eppure, ormai profondamente modificato nel pensiero e nell’animo, sempre più oppresso da quel regime spersonalizzante, con risolutezza portò a maturazione il progetto, accarezzato da tempo, di lasciare la Russia per avere una nuova vita in un Paese democratico. Era appena iniziato il 1993. Le maglie della contestazione si stavano allargando in tutta la Russia. Molte persone se ne dipartivano, abbandonando tutte le loro cose, nella speranza di un futuro migliore. Per lui, insospettabile, non fu problematico ottenere un permesso per recarsi in Italia, con il pretesto di eseguire degli studi approfonditi su alcuni autori italiani e così, fermamente deciso a non far più ritorno, se ne andò. Lasciare la cattedra universitaria, fu il suo unico, vero rimpianto. L’arte gli procurava sensazioni pulite che la vita raramente concede e insegnare lo gratificava. Tra i tanti suoi impegni, l’insegnamento dell'arte era il solo che considerava importante. Rinunciarvi significava venir meno ai suoi doveri sociali, ma fu irremovibile. Dapprima pensò di stabilirsi a Firenze, patria di Lorenzo de’ Medici, principe umanista, scrittore, filosofo, poeta, liberale e soprattutto Magnifico per il suo mecenatismo che permise di accedere alla sua Signoria ad artisti come Botticelli, Verrocchio, Leonardo, Michelangelo, ad uomini di lettere quali Poliziano, Pulci, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola che crearono il Rinascimento italiano e avviarono una cultura mitteleuropea, sino ad allora frammentata e dispersa tra le nebbie del Medioevo. Firenze poteva essere la meta ideale per i suoi studi sul Quattrocento, cui tanto impegno da giovane vi aveva dedicato, ma il richiamo di Roma, per la sua storia, per le sue innumerevoli testimonianze artistiche di un passato millenario, rinascimentale e barocco, per la presenza del Vaticano, città nella città, fu più allettante e come meta della sua nuova vita elesse l’Urbe. A Roma avrebbe ricominciato a vivere, non più oppresso dall’arroganza invadente che gli aveva apportato un immeritato benessere sociale, segnato dal negazionismo di crude problematiche reali, attinenti alla sfera delle necessità del prossimo. La demagogia imperante, il servilismo imposto erano le armi di quel potere assoluto su cui aveva costruito la sua altolocata e aristocratica posizione ed ora, pur lontano dall’agiatezza goduta in Russia, si sentiva appagato e affrancato da ogni sudditanza. Può esserci condizione più bella di quella generata dal felice epilogo di una lunga, brutale malattia e sentendosi guariti poter affrontare serenamente la vita? Certamente aveva perduto un po’ di se stesso, ma se una malattia da cui si è affetti costringe a rinunciare ad una parte del proprio corpo affinché si possa sopravvivere, la mutilazione non solo diventa accettabile, ma è l'unica possibilità di restare vivi. A cosa può servire essere tutti interi da morti?


 

 

CAPITOLO 5

 

Alle sette del mattino guardò dalla finestra della sua camera d’albergo sul colle del Gianicolo. Una leggera e sottile foschia offriva uno spettacolo grandioso. Il Vittoriano, Castel Sant’Angelo, la grande cupola della Basilica di San Pietro sembravano galleggiare su un tappeto di bambagia che, coprendo i tetti dei palazzi circostanti, formava un’immagine surreale simile ad un miraggio prodotto da una antelucana fata morgana. Il profumo dell’aria fresca e umida gli dava la sensazione di essere immerso nelle nuvole, di osservare quella sublime visione dal cielo. Con lo sguardo trasognato la sua memoria tornò alle visioni oniriche che gli apparivano dalla piccola finestra dello studio di Leningrado, ove circondato da librerie alte sino al soffitto, colme di volumi, una larga porta-finestra, prospiciente il tavolo da lavoro, restava perennemente chiusa perché si apriva sul chiasso di una piazzetta, mentre nella parete opposta la piccola finestra guardava su di una ripida erbosa collina, talmente vicina allo sguardo da riempire con la sua ripida conformazione il riquadro dell’imposta, lasciando apparire alla sua sommità appena un minuscolo fazzoletto di cielo, dove di giorno passeggiava qualche nuvola, di notte splendevano le stelle. Avanti a quella vista Adrian, dischiusi i vetri, gomiti appoggiati sul davanzale, respirando aria e silenzio si perdeva in quel coriandolo azzurro. La collina era il suo colle dell’infinito, il trampolino di lancio della sua munifica fantasia. Al di là vi vagheggiava un mondo perfetto, privo di passioni, colmo di bellezza, dove l’eterno costituiva il punto di arrivo dei suoi pensieri. La vastità di quell’universo fantastico lo vivificava, gli traeva da dentro i concetti favolistici delle cose, creava nella sua immaginazione scenari meravigliosi, come se il brutto fosse perennemente bandito da un Ordine superiore. Sacrilega gli sarebbe apparsa la presenza di una impura forza iconoclasta, la cui presenza avrebbe potuto alterare una compiutezza così sublime, ricordo dell’incorruttibile splendore dell’Eden perduto. Dentro quel lembo di cielo Adrian intravedeva come in un caleidoscopio queste illusioni e in lontananza udiva il sommesso, lieve gorgoglìo di una sorgente da cui immaginava che l’acqua fluisse in mille rigagnoli, per poi ricomporsi in un getto rigoglioso che andava a spegnersi in uno specchio argenteo al centro di un grande prato verde, disseminato di euforbie, anemoni multicolori, asfodeli, ranuncoli. Intorno, il silenzio magnificato dal cinguettio degli uccelli, regnavano tranquillità e armonia. Era la fonte della gioia ove il leone si abbevera insieme alla gazzella e la volpe con il coniglio, talmente copiosa da dissetare in letizia tutte le creature della terra, ammantata dalla splendente luce del sole, però sebbene la sentisse vicina, Adrian ovunque il suo sguardo spaziasse non la scorgeva. Il sentiero per arrivarci gli era sconosciuto. Sapeva che avrebbe potuto raggiungerla in un attimo, più probabilmente però una vita intera non gli sarebbe stata sufficiente, conscio che la gioia è il fiore di una pianta delicata che necessita di cure costanti e di affettuose premure che lui non le riservava e allora mestamente chiudeva le imposte e tornava al suo lavoro. Chissà, forse un giorno anche lui avrebbe potuto bere di quell’acqua miracolosa, sentirsi in perfetta armonia con le sue azioni, con i suoi pensieri, con il prossimo e non avrebbe più avuto bisogno di perdersi nelle chimere di un mondo fantastico per trovare pace e serenità, ma quelle erano soltanto illusioni, adesso invece stava guardando la realtà e si sentì affrancato dalla tristezza generata dallo stato di illibertà nel quale aveva vissuto. Un sole, per lui nuovo, illuminava il mondo. Era il due febbraio del 1993. Doveva essere il primo giorno della sua vita. Dall’agenda strappò via tutte le pagine sino al due febbraio, volendo con questo gesto cancellare quanto avvenuto prima. Cominciava a vivere da quel giorno e giurò a se stesso che mai avrebbe più vissuto sotto il giogo politico e psicologico come nei suoi primi cinquantotto anni. Abbandonati legami, amicizie e benessere conquistati con il lavoro, era uscito dal suo Paese con poco denaro, appena il necessario per i primi giorni, in attesa di trovare un’occupazione, ma era sereno. Il futuro, che pur sapeva difficile, non lo impensieriva, anzi gli infondeva una forte determinazione a reimmergersi nel flusso dell’esistenza. Si volle regalare una giornata di vagabondaggio per Roma. S'incamminò lungo la Passeggiata del Gianicolo. Scese sino a Largo di Porta San Pancrazio e proseguendo per Via Garibaldi entrò, attraverso un dedalo di viuzze, nella vecchia Trastevere. Giunto alla piccola e ombrosa Piazza Trilussa si sedette sulla scalinata della Fontana del Vasanzio. Quanto doveva essere bella Trastevere ai tempi di Belli e di Trilussa! Ritrovate le forze, davanti a sé, come un invito che non può non essere accettato, vide la stretta camminata di Ponte Sisto. L’attraversò. Proseguì la passeggiata sull’altra sponda del Tevere verso Città del Vaticano. Con l'aria dolce, la luce che filtrava attraverso le foglie dei platani, era stupendo incedere sotto quelle larghe chiome e, avanzando lungo il parapetto del Tevere, godere della vista dei palazzi sulla sponda opposta del fiume. Continuò a camminare sino ad arrivare al Ponte Sant'Angelo che anch’esso chiedeva d’essere varcato e lo imboccò. Ad aspettarlo c’era il Castello. A metà del ponte si arrestò ad ammirare la maestosità del monumento. Ne conosceva la storia e le vicende che si erano compiute entro quelle mura edificate nel 525 d.C., modificate più volte nella loro struttura in epoca medievale e nel Rinascimento sino a diventare prigione, per poi essere caserma e museo. Di tutte le leggende legate a Castel Sant’Angelo, quella che più delle altre colpì la sua immaginazione fu il passaggio fortificato che lo collega al Vaticano. Vaticano! Parola che evoca pensieri di religione, di politica, di potere, di eternità e trovandosi nelle vicinanze, sedotto dal suo fascino, istintivamente, si diresse in Via della Conciliazione. In Piazza San Pietro, turbato dalla solennità del luogo, abbagliato dalla grandiosità dello spazio avvolgente, racchiuso entro i monumentali colonnati del Bernini, fu assalito da una improvvisa crisi di panico e di tachicardia commista a vertigini. Provò la sensazione di trovarsi al centro di un turbine generato dai due emicicli, i quali vorticando in una spirale sempre più stretta, lo comprimevano in un cerchio che, progressivamente restringendosi, lo soffocava, rendendogli la vista offuscata ed il respiro ad ogni istante più corto. Colpito da una inquietante sindrome di Stendhal, generata dalla grandiosa bellezza delle esedre e dalla imponente facciata della Basilica, dovette sedersi a terra all'ombra dell’obelisco svettante al centro della piazza. Il suo cuore pulsava talmente forte che sembrava volesse uscirgli dal petto. In un barlume di lucidità comprese di dover rompere il ritmo accelerato delle sue funzioni organiche. Si alzò in piedi, la testa gli girava, si sentiva le gambe deboli. Come avrebbe potuto produrre un cortocircuito nel suo organismo perché cessasse quel disagio? Non ne aveva idea, ma reagire era imperativo. Si mise a correre verso uno dei colonnati e appena fatti pochi metri, nonostante corresse, il suo respiro si acquietò, divenne più lungo e anche il cuore gli sembrò battere con minor velocità. Proseguì nella corsa. Arrivato alle colonne finalmente stava bene. All'ombra del porticato, la schiena poggiata al basamento di una colonna, si rilassò. Era il suo primo giorno romano, non l’avrebbe mai dimenticato. Con un taxi tornò in albergo. L’indomani fece un’abbondante colazione, una doccia, si mise il miglior vestito e uscì per recarsi dalle autorità competenti cui chiedere asilo politico, consapevole che per la sua fama di intellettuale, nota pure in Italia nell’ambiente letterario, non gli sarebbe stato negato. In seguito, in attesa di sfruttare la sua erudizione per riprendere la vita da studioso, cui ormai dedito da tanti anni non si rassegnava a rinunciare, avrebbe cercato un lavoro nell’ambito letterario, ma con animo e intendimento diversi da prima. Voleva riscattarsi da un’intera vita spesa nell'egoismo, incurante di chi, con minore fortuna, gli era intorno e fare ammenda, pagando il suo debito verso il prossimo, nella consapevolezza che leggere e tradurre libri non fosse particolarmente encomiabile, se non un qualunque lavoro che a lui aveva immeritatamente regalato benessere e privilegi. In pochi giorni, con un nuovo nome, ottenne il permesso di soggiornare in Italia e di lì a poco anche la cittadinanza, in qualità di rifugiato politico. La vera identità di Adrian Tarasov era nota soltanto alle autorità che gli avevano concesso il diritto di asilo. Nei documenti non si fece cenno alla professione esercitata nel suo Paese di origine. Sarebbe stato un uomo qualunque, uscito come tanti altri dalla patria in cerca di una vita migliore, sebbene qualificarsi insegnante, laureato in lettere, con rapidità gli avrebbe dato facilmente accesso ad un buon impiego. Ora si chiamava Adrian Morar. Volle conservare il suo nome proprio, non risolvendosi ad essere chiamato in altro modo. Adrian Tarasov era scomparso definitivamente, mentre Adrian Morar, come un neonato, stava aprendo gli occhi sul nuovo mondo. Per sopperire alle necessità quotidiane fece una serie di lavori saltuari, ma con costanza continuò a cercare un impiego nell’ambito della cultura, delle scienze umanistiche. Si munì di un elenco di indirizzi di case editrici presenti in città. Straniero, non aveva credenziali e il suo italiano non era certo dei migliori. Dopo alcuni rifiuti ottenne presso la Casa Editrice Torini l’incarico di curare l’archivio, un impiego non degno delle sue cognizioni letterarie, ma che segnava un primo passo nel mondo della cultura. Sapendo d’essere uomo di valore, non si scoraggiò. L’importante era iniziare, il resto sarebbe venuto col tempo. Finalmente aveva un’occupazione stabile. L’albergo nel quale aveva preso alloggio era troppo fuori mano. Doveva avvicinarsi al posto di lavoro. Cercò nelle zone intorno a Piazza del Gesù ove aveva sede la casa editrice. In Via del Biscione, a Campo de’ Fiori, in un vecchio palazzo si dava in affitto un piccolo appartamento dall’aspetto trascurato, con le pareti stinte e i pavimenti segnati dai piedi dei tanti inquilini che vi si erano avvicendati, in compenso era arredato, offerto a buon prezzo e non distava molto da Piazza del Gesù. Da lì avrebbe potuto recarsi alla casa editrice in poco tempo. Come prima sistemazione poteva andare più che bene e lo prese. La mattina, uscendo di casa, imboccato Corso Vittorio Emanuele II, in quindici minuti era al lavoro. La sera rientrando, desideroso di vedere la città, percorreva ogni volta itinerari diversi, perdendosi nel labirinto dei vicoli del centro storico, passando oltre botteghe di artigiani, piccoli antiquari, rigattieri che esponevano oggetti non antichi, semplicemente vecchi, dismessi dall’uso, ma talvolta di buona fattura. In particolare gli piaceva osservare i vasi da fiori. Ne vedeva di tutti i materiali e fogge. Di ceramica, dipinti con immagini bucoliche prese a prestito dai paesaggisti del ‘700, di metallo argentato, di bronzo, di vetro, persino di legno con l’interno foderato di zinco. Gli ricordavano la casa paterna di Leningrado, nel cui ingresso sopra una piccola consolle, rilucevano, sempre forniti di fiori freschi, due piccoli vasi in ottone, ricavati dai bossoli di un obice che suo padre diceva venissero dalla battaglia di Stalingrado. Forse non era vero, ma Adrian a quei due bossoli era teneramente affezionato perché il padre ne andava fiero. Nel centro storico di Roma, innumerevoli erano i luoghi, i monumenti, le chiese ove ammirare capolavori di Michelangelo, Caravaggio, di altri insigni Maestri, del Bernini di cui era grande estimatore, per la sua ecletticità espressa ai massimi livelli artistici sia nella scultura che nell’architettura. Dopo la vertigine provata in Piazza San Pietro al centro delle imponenti esedre, di Bernini voleva conoscere ogni opera. Iniziò dapprima con Apollo e Dafne e il Ratto di Proserpina esposte alla Galleria Borghese, di qualità incomparabile, che pongono il barocco italiano ai più alti vertici raggiungibili. Dove credette però che lo scultore fosse arrivato allo zenit dell'ispirazione artistica fu l’Estasi di Santa Teresa d’Avila, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. La Santa galleggia nel vuoto, avvolta entro l’abito monacale che mostra tutte le sue morbide pieghe, adagiata in totale abbandono corporale su di una nuvola, con il viso ad occhi chiusi rivolto verso l’alto, mentre un angelo le scaglia una freccia, simbolo dell’amore di Dio, facendole assumere una espressione dolce ed estasiata, in un trionfo barocco dorato dei raggi del sole che la illumina. Adrian sensibilmente toccato dalla mistica ieraticità che l’opera emana, stregato dalle volute della veste mossa dall’aria e dall’eloquenza narrativa del volto della Santa, nella sua espressività trasudante gioia e dolore fusi insieme in un delirio estatico, sentì, come poche volte gli era capitato, d’essere travolto dalla forza vigorosa dell’arte che rapisce i sensi e riempie l’animo di gioia. Così Adrian trascorreva il suo tempo libero, girovagando con una guida della città in mano per le vie di Roma, non solo di giorno, ma anche di notte, quando le strade sono deserte, i rumori soffocati e i palazzi rimandano nell’etere le voci di generazioni d’uomini disperse nel tempo e di fantasmi che non si rassegnano ad immergersi nell’oblio dell’eternità. Niente è più sacro, più coinvolgente di Roma quando è notte. Nei suoi vicoli immersi nel quieto etere del buio, animato da sporadici frulli di ali notturne, si possono ancora sentire gli zoccoli dei cavalli, il rumore delle ruote delle carrozze sui sampietrini, avvertire il passo cadenzato delle ronde che perlustrano i rioni e, in prossimità del Circo Massimo non è insolito percepire le acclamazioni del popolo che assiste ai ludi circensi e davanti al Colosseo udire il ruggito dei leoni. Né poteva sottrarsi al fascino dei segreti secolari che gelosamente la città custodisce nei suoi borghi, ove nei vicoli le fioche luci dei lampioni, con i loro deboli guizzi di luce su l’acciottolato bagnato dall’umidità della notte, creano buie penombre in una surreale monocromia bianco-nera, impregnata di suoni indistinti, miagolii di gatti, scrosci di piccole fontane, passi in lontananza. Un mondo fatto di riflessi luccicanti, lamenti di animali, rumori eterni, profondi silenzi. Questa è Roma. Bella di giorno, incredibile di notte, meravigliosa sempre.

 


 

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