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SIC TRANSIT GLORIA MUNDI

Autobiografia

 



 


Belisario Righi

 

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PREFAZIONE

                                               

Queste memorie autobiografiche hanno l'ardire di mostrare quanto le glorie della vita terrena siano fugaci e si dileguino nel tempo. Nel greco antico eudaimonia ha il significato di felicità. La parola è composta da eu (bene) e daimon (sorte). Secondo Aristotele eudaimonia è la realizzazione di se stessi secondo la propria natura. Non a caso però daimon significa anche demone e a me piace dare alla parola felicità il concetto del raggiungimento dell’equilibrio morale attraverso il controllo dei propri demoni, ovvero di quelle negatività che quotidianamente ci avvelenano la vita. Quando questi demoni li avremo sconfitti e ridotti a nulla, allora e soltanto allora potremo dire di essere felici, perché non più condizionati da elementi impuri che inquinano la limpidezza del nostro spirito. Ma cosa sono questi temibili demoni? Purtroppo sono tanti e tutti indistintamente recano il marchio della negatività. Egoismo, invidia, prevaricazione crudeltà, tanto per citarne alcuni, però il più terribile, il più feroce, quello che più di ogni altro richiede il maggior impegno per essere sconfitto non è di pura natura spirituale, ma crudamente pratica: il denaro.

Il denaro in sé non ha alcunché di negativo, è un elemento che fa parte della nostra vita, però la brama di possederlo induce troppo spesso a comportamenti disumani che limitano in maniera decisiva, a volte irreversibile, il rapporto con chi ci è vicino, creando fratture insanabili di empatia con il nostro prossimo verso il quale dovremmo avere un approccio disinteressato attraverso un dialogo spirituale, scevro da ogni reticenza, improntato ad un naturale e rispettoso scambio di emotività e di sentimenti, mai contaminato da malafede e opportunismo.

La ricerca della felicità quindi è sostanzialmente l’insieme delle nostre attitudini che ci permettono di condurre una vita cristallina che ha, come fine ultimo, la serenità del nostro animo. Si fae bene scuorda, ma si fae male pensa. Così recita un detto napoletano. Però poiché il comportarsi bene deve essere consequenziale al nostro modo di vivere e pertanto, perché naturale non può produrre motivi di riflessione, al contrario, i comportamenti iniqui non permetteranno al nostro spirito di regalarci serenità, perché qualsiasi errore o azione riprovevole comporta un tributo da pagare.

Mio padre, uomo colto e illuminato, ambiva ad occupare nella società una posizione degna di nota e nel lavoro identificò l’unica via per emergere, per essere, come si suole dire, qualcuno. Riuscì nel suo intento e di riflesso guadagnò parecchio denaro. Io crebbi nel benessere e divenni uomo con il concetto che la ricchezza fosse la panacea per ogni male e ad essa dovessero essere ascritti tutti i piaceri e le gioie che la vita ci offre, ma lentamente si inoculò in me un consistente senso critico nei confronti del denaro, cui iniziai a dare il suo giusto peso. Compresi quanto esso dovesse rappresentare un mezzo, non un fine. Inavvertitamente sentii crescere in me bisogni e desideri sino ad allora mai entrati nella sfera dei miei interessi. Non mi sembrò possibile che fossi arrivato alle soglie della maturità e provassi attrazione per gli abiti, le automobili, le donne, la vita dispendiosa in genere, in una parola semplice, per l’apparire, senza preoccuparmi di conoscere il mondo, di fare esperienze di vita al di fuori della stretta cerchia dei conoscenti e soprattutto essere incolto. Vivevo tra gente che non leggeva un libro, non conosceva niente di musica, dedita soltanto a far mostra di sé. Gente con cui non vi era la possibilità di intavolare un discorso che non fosse faceto, frivolo. Ebbene, così ero anch’io, ma per mia fortuna cominciai a guardare il mondo con altri occhi e notai esserlo popolato di persone interessanti e piacevoli di cui mai avrei sospettato l'esistenza, troppo spesso rilevando quanto la loro vita fosse più interessante della mia.

Perché avvertivo questo opprimente senso di inadeguatezza? Perché non mi sentivo spiritualmente completo? Pensai che, in tal senso, il pensiero di uomini che avevano cercato di comprendere l’essenza della vita mi potesse venire in aiuto e così, senza uno schema preciso, presi a leggere libri nei quali, speravo di trovare le risposte che mi mancavano. Le mie letture erano limitate ai libri di scuola, d'Università e a non più di cinque o dieci romanzi, portati a termine con grande fatica. La letteratura divenne il bastone al quale sorreggermi durante il cammino sulla strada del sapere. Romanzi, scritti sulla morale, trattati di arte furono i miei compagni di viaggio. In particolare l’arte, cui un poco già mi ero avvicinato al liceo classico, mi coinvolse al punto che gallerie, pinacoteche, musei divennero le mie mete preferite. A Roma trascorsi giornate intere tra i Musei Vaticani, la Galleria d’Arte Moderna, la Galleria Borghese e le innumerevoli chiese che ospitano dipinti e sculture di sommi artisti. Non da ultima la musica rivestì un ruolo rigeneratore del mio spirito. Nel più importante libro di Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, la figura più emergente è quella del magister ludi, il sommo capo degli intellettuali, filologo e studioso di musica, secondo Hesse la più alta delle attività intellettuali perché esclusivamente all'anima demanda l’interpretazione del suo messaggio. Una melodia musicale non si può toccare né guardare, non ha corpo. La si può solo ascoltare e filtrarla attraverso i più reconditi recessi dell’anima. E’ la regina delle arti, la più eterea. E’ sovrannaturale.

Pur vivendo a Roma, non ero mai entrato al Conservatorio di Santa Cecilia fino al giorno in cui, un’amica mi portò per un concerto di musica barocca. Vivaldi, Tartini, Corelli, Albinoni mi appassionarono così tanto che di questi artisti acquistai una gran quantità di dischi. La musica classica per la sua compiutezza mi affascinò ed opere di Mozart, Bach, Haydn, Beethoven, Rachmaninov e di altri superbi compositori ne accrebbero l’interesse, ma anche il blues, lo swing, il jazz, la new age suscitarono la mia curiosità. Al contempo si sviluppò, lentamente in me il bisogno di creatività. Dovevo anch’io creare qualcosa che fosse soltanto mia. Acquistai una macchina fotografica Nikon F2. Imparai ad usarla alla perfezione, sulla fotografia appresi tutto quanto c’era da conoscere e in breve tempo divenni un buon fotografo. Alle vacanze a Cortina o in Costa Azzurra anteposi dei viaggi in India, Marocco, Brasile, Messico ed altro. In cinque anni o poco più ho visitato molti Paesi, tra l’Europa, l’Africa, l’Asia, l’America del nord, l’America del sud. L’Oceania è stato l’unico continente non visitato e non per mancanza di curiosità, ma solo perché me ne è mancato il tempo.

Viaggiando ho appreso qualcosa di inglese, spagnolo, portoghese e perfezionato il mio francese scolastico. In ogni mio viaggio il desiderio preminente era di conoscere un mondo nuovo, immergendomi tra la gente semplice che intesse l'eterna tela dell’esistenza, disdegnando hotel di lusso come il Miramonti a Cortina, il Metropole a Montecarlo, o il Plaza Athénée a Parigi, miei abituali alloggi durante le vacanze, nei quali avrei soltanto trovato persone intossicate dal dio denaro, preferendo invece alberghetti, piccoli resort ove si sta a contatto con la gente reale, la vera anima di ogni società. In quegli anni ho ascoltato musica, letto libri, visitato luoghi d’arte, ho conosciuto tante più persone di quanto prima mi fosse capitato e soprattutto mi sono divertito come mai mi era accaduto. E pensare che all’età di trentatré anni avevo fatto solamente due brevi viaggi in Kenya e a New York, ovviamente alloggiando in alberghi a cinque stelle.

La morale di tutto quanto detto è che il denaro è certamente importante, perché senza di esso vivere è complicato, a volte impossibile e quindi è imperativo averne, però nella giusta misura, quanto sufficiente per condurre una vita decorosa. Il di più è soltanto veleno. La felicità non è di questo mondo, ma se proprio vogliamo parlarne, per essere felici il denaro non basta, bensì bisogna vivere e confrontarsi con il mondo che di spunti di gioia e di felicità ne offre ben più che la mera ricchezza, quando questa è fine a se stessa.

In queste pagine parlerò dunque delle mie due vite. Si vive una sola volta, è vero, ma soltanto biologicamente, perché nel corso della nostra esistenza terrena veniamo sottoposti a cambiamenti talmente radicali da indurci a considerare il prosieguo del nostro vivere come una nuova vita che poco o niente ha attinenza con quella precedente. Nella prima vita ho commesso errori che hanno determinato i mutamenti cui ho accennato, ma ad onor del vero, se paragono l’errore al peccato, posso affermare che i miei peccati sono stati tutti veniali, tranne uno. Il mio vero, imperdonabile peccato mortale, per il quale non esiste assoluzione, è stato credere nelle persone a me vicine. Ad esse ho dato tutto l’amore di cui ero capace ed ho dedicato tutto il mio tempo, senza mai curarmi delle mie istanze personali, senza reticenze, ricevendone in cambio soltanto tradimenti, rancori e diffamazione. Queste parole forti disgraziatamente sono realistiche e non dettate dalla volontà di attenuare i miei errori, tantomeno generate dall’enfasi di una retorica colpevolista. Del resto la storia che segue ne darà ampia giustificazione, senza lasciare dubbiosità latenti, tanto sono trasparenti e di facile interpretazione gli elementi narrati. Ma forse per essere ancora più chiaro e meno negativo posso semplicemente dire, con una terminologia rubata al mondo dell’ippica, di aver partecipato ad una corsa ad ostacoli con un cavallo zoppo che mai avrebbe potuto vincerla. Ho riposto, ahimè, fiducia in progetti confusi, da me non ideati, in aggiunta, nella realizzazione degli stessi ho dovuto confrontarmi con una gerarchia di comando non voluta, nella fattispecie assolutamente inadeguata, impostami dal destino, che ha comportato scelte rivelatesi disastrose.

La narrazione che segue, riguarderà soprattutto gli anni della giovinezza, attinenti alla formazione del mio carattere e quelli della prima maturità, più densi di vicende che, a mio avviso, meritano di essere ricordate perché vissute come si conviene ad un uomo che oltre ai tanti doveri impostigli, non ha tralasciato la vita sociale. Parlerò però soltanto degli accadimenti che hanno in qualche maniera segnato irreversibilmente la mia vita, siano essi stati belli o brutti, a volte terribili. Farò menzione di ciò che mi ha dato emozioni e brividi, delle mie figlie, di mia moglie, di alcuni viaggi, della passione per le macchine veloci, dei miei più cari amici e non da ultimo di frequentazioni femminili, ma soltanto di quelle che hanno concorso a formare la mia immagine di donna.

 

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I lettori che conoscono alcuni miei libri, in questa trattazione troveranno cose già note, essendo però di natura biografica mi è sembrato doveroso non omettere





 

SIC TRANSIT GLORIA MUNDI


 


 

LA PUBERTA'



 

Dalle origini al 1954.

Alle ore cinque pomeridiane della domenica del 9 settembre 1945, appena quattro mesi e mezzo dopo la liberazione dell’Italia dal Nazifascismo che per gli italiani segnò la fine della seconda guerra mondiale, a Gualdo Tadino, in una casa di proprietà del mio nonno paterno Belisario, sotto il segno zodiacale della Vergine, venni alla luce. Primo tra i nipoti maschi col cognome Righi, di concerto il nome fu quello di mio nonno. Mi chiamarono Belisario, ma per questa omonimia, fu deciso che in famiglia sarei stato chiamato Sario. Questa dunque è la storia di Belisario Righi, alias Sario Righi, figlio di Ferruccio e Valeria Micheletti.

In considerazione del nutrito numero dei parenti stretti ai quali fui legato negli anni della mia pubertà credo sia opportuno farne l’elenco. Belisario e Giulia, i miei nonni paterni avevano avuto quattro figli. In ordine di età, per prima venne Eola, poi Vittore Ugo, alias Vittorugo, così lo chiamavamo in famiglia, quindi Elda e da ultimo mio padre Ferruccio. Eola sposata con Raffaele Teodori, chiamato Lelletto, ebbe due figli: Giuliano e Miranda. Da Elda sposata con Giandiletto Piersimoni, chiamato Diletto, nacquero Pierdomenico e Glorianda. Zio Vittorugo, abbracciò la carriera ecclesiastica, pertanto non ebbe figli. Infine, Ferruccio si sposò con Valeria Micheletti e dalla loro unione nacqui io, poi Erica e Mario. I nonni materni, Publio Micheletti e Amedea Spacca, ebbero due figli: Valeria, mia madre e Franco. Da zio Franco e la sua compagna Maria Moradei, circa dodici anni dopo la mia nascita nacquero Marco e poco più tardi Francesco.

Uomo altero, dall’aspetto forse un poco burbero, Nonno Belisario, in realtà aveva un carattere amabile e, almeno con me, era affettuoso e forse perché ero l’unico a portare il suo cognome ed anche il suo nome, aveva nei miei confronti una spiccata predilezione rispetto agli altri nipoti. Gli volevo bene e ricordo con tenerezza, quando la domenica andavo a trovarlo e stavo con lui qualche minuto a parlare della mia vita da scolaro, degli studi che avrei dovuto seguire con serietà e diligenza. Non era molto espansivo, non si lasciava andare a sdolcinatezze, mi trattava da uomo e per questo l’amavo. I nostri brevi incontri terminavano quando dal suo gilet pescava qualche moneta per il cinematografo e le mie piccole spese.

Nonna Giulia, fervente cattolica, mi parlava spesso della sua giovinezza segnata dalla necessità di aiutare sin da bambina la mamma nelle faccende domestiche, raccogliendo legna e ramoscelli per la stufa che serviva per cucinare e d’inverno per riscaldare la casa. Era una donna semplice, ma aveva una conoscenza delle cose fondamentali della vita come poche volte mi è capitato di notare in altre persone. La sua era una saggezza semplice, pratica, quanto mai vera. Religiosissima, mi insegnò a riconoscere tutti i suoni delle campane e così, io sapevo se era giorno di festa, se si celebrava un matrimonio o un funerale o era l'ora dell’Angelus. All’Angelus della sera, il Rosario di mia nonna era di rigore. Intorno a lei, raccolta in preghiera, si riunivano oltre ai famigliari anche alcune signore vicine di casa. Era il Rosario della Sora Giulia.

I miei nonni materni, Publio e Amedea, diversi in tutto, non ho mai capito come abbiano potuto sposarsi.

Nonno Publio, per tutti il Sor Publio, aveva un carattere stupendo. Modesto, sempre allegro, con il viso dal sorriso gioviale. Amante della vita che, sebbene non le avesse regalato molte soddisfazioni, affrontava sempre ogni circostanza, con animo ottimista e una flemma a Gualdo Tadino divenuta proverbiale. Non conosceva la malinconia, il malumore, il disappunto. Era sempre fiducioso nell’avvenire. Il mezzo bicchiere per lui era sempre pieno a metà. Apparteneva a una famiglia di importanti commercianti all’ingrosso di animali da macello. A Gualdo periodicamente si teneva il mercato boario e talvolta mi portava con sé. Mi divertivo a guardare mucche, torelli e soprattutto vitellini, alcuni talmente piccoli che sembravano non reggersi sulle gambe, ma la cosa che sempre mi sorprendeva era la semplicità con cui venditore e acquirente concludevano i loro affari, parlando solo di denaro e mai del peso dell’animale. Nonno mi disse che con il tempo l’occhio si affina al punto tale da stimare il peso con uno scarto irrilevante. Mi sembrava impossibile, non tanto per i vitelli, quanto per certi bovini che arrivavano a pesare anche dieci quintali, ma dovetti ricredermi il giorno che i capi venduti furono sottoposti al peso dall’ufficiale del Dazio. La differenza tra il peso stimato e quello rilevato dalla pesa era sempre di pochi chili. Nonno Publio, con i suoi vestiti, sempre corredati di panciotto guarnito dall’immancabile catena dell’orologio da taschino e la sua stazza non indifferente, mi appariva, e lo era, un gran signore, buono, educato e tollerante con tutte le persone che, per la sua fama di uomo di mondo, venivano a chiedergli consigli e pareri sulle cose più svariate. Lo amavano tutti. Gli ero molto legato e quando qualche sera passavo la notte a casa sua era una gran festa, perché mi raccontava episodi della prima guerra mondiale, quando soldato nella disfatta di Caporetto, per puro miracolo, riuscì a restare vivo, ma non solo di guerra mi raccontava. Conosceva favole divertentissime che ho sentito soltanto da lui. Provavo nei suoi riguardi un grande affetto.

Nonna Amedea, iperattiva, saccente ed improntata al comando, peculiarità sicuramente dovute alla sua attività di maestra elementare, era una signora sempre attenta, investita, da chissà quale forza celeste, del potere di decidere su tutto e su tutti. In seguito leggendo Gita al faro di Virginia Woolf, la signora Ramsay, personaggio di spicco del libro, mi ricordò la nonna. Decima figlia di una modesta famiglia, per farsi strada aveva dovuto compiere grandi sacrifici e per questo era cresciuta risoluta e decisa, mai tentennante e incline alla sconfitta. Non avrebbe potuto permettersi di capitolare in qualsiasi circostanza della sua vita. Aveva una sola, innocente debolezza. Pur essendo non molto alta e rotondetta, era bella e di questo suo dono naturale si compiaceva oltremodo. Ma a dispetto della sua spigolosa personalità fu una nonna dolcissima. Abitava in una casa che in passato era stata di un'antica ed abbiente famiglia di Gualdo. Alcune delle sue stanze avevano il soffitto affrescato con scene di vario tipo. Nel salone erano raffigurati alcuni grandi poeti del lontano passato: Dante, Boccaccio, Petrarca, e di tutti nonna mi raccontava qualcosa e così conobbi anche Beatrice, Fiammetta, e Laura, le muse ispiratrici di quegli eccelsi artisti, e con l’occasione, anche se non faceva parte del ciclo degli affreschi, nonna mi parlava di Giovanni Pascoli, il suo poeta preferito, ma la stanza che più guardavamo era quella recante immagini rubate all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Insieme al paladino Orlando che si strugge d’amore per la bella Angelica, erano affrescate scene di guerra cavalleresca e allora nonna mi raccontava della battaglia di Roncisvalle, di Carlo Magno, dei saraceni. Un mondo per me fantastico e surreale che mi affascinava così tanto da costringerla a raccontarmi quelle gesta eroiche in continuazione.

Nella casa ove nacqui abitammo per tre, forse quattro anni, poi babbo decise di ristrutturarla e andammo a vivere dai nonni paterni che abitavano con una domestica in una palazzina piuttosto grande. Una strana abitazione situata nel centro storico, costruita nell'angolo retto formato da una via ed una ripida scalinata che scendeva verso la strada sottostante, incastrata tra la palazzina dei nonni e un alto muro di contenimento di una vicina costruzione. La superficie della casa si sviluppava su ben sei piani. L’ingresso, cui si accedeva da un piccolo giardino, leggermente sopraelevato rispetto alla sede stradale era al terzo piano dove c’era l’appartamento dei nonni, nel quale per comodità, ormai vecchi, vivevano. Il quarto piano era suddiviso tra una grande sala da pranzo con camino, un piccolo salottino privato e un bagno. Al quinto piano c’era l’appartamento occupato dalla mia famiglia, infine il sesto, ovvero la Torretta, così era chiamato quel piano, di dimensioni inferiori agli altri, consistente in una sola stanza quadrata, con le pareti interamente costituite da grandi finestre a bifora. Era vuota, non ci andava mai nessuno. Mamma dopo averne fatto ermeticamente serrare tutte le finestre, la dotò di un basso tavolo con delle sedie e vi portò tutti i miei giocattoli, divenendo così la stanza dei miei giochi solitari, dove a tenermi compagnia c’erano solamente il mio cane Hansel, un boxer maschio che nel vicinato faceva strage di gatti, a me talmente affezionato che perfino i miei genitori dovevano avvicinarsi con cautela, e il vicino campanile della cattedrale di San Benedetto che con i suoi rintocchi annunciava la sua presenza ogni quindici minuti. Il campanile, a base quadrata, con la guglia piramidale sormontata da una croce scandiva il tempo della cittadina e ricordava agli abitanti i momenti della giornata dedicati alle funzioni sacre e alla preghiera. Quella casa aveva qualcosa di inospitale. I soffitti dei corridoi foggiati ad arco, le alte finestre a bifora, la lunga scala interna di collegamento tra i sei piani, che di notte, sulle sue finestre si riflettevano ombre e bagliori, creavano un insieme dall'aspetto gotico degno di un film horror. Nel primo sottostante c’erano la camera da letto di mio zio Don Vittorugo, il suo studio-biblioteca, un bagno e una cappella ove spesso si celebrava la Santa Messa. E ciliegina sulla torta, il piano più in basso. Spettrale, alto quasi il doppio degli altri, privo di divisori, con quattro colonne in pietra al centro del grande vuoto, con le pareti grezze, non intonacate, e buio perché aveva soltanto una piccola finestra che prendeva luce dalla scalinata che costeggiava la casa. Adibito a ripostiglio, eternamente senza sole, era maleodorante di umidità e di muffa. Pauroso! Sembrava un ambiente delle Carceri di Piranesi. In quella casa abitammo circa due anni. In seguito, terminati i lavori di ristrutturazione della vecchia abitazione, finalmente la lasciammo, ma i rintocchi del campanile che anche là si sentivano per anni hanno mantenuto vivo nella mia mente il ricordo di mamma, delle zie, delle cugine, e delle altre signore con la testa coperta dal velo che pregavano assorte intorno alla nonna.

Con uno spiccato senso pratico, non disgiunto da una visione grandiosa dei suoi progetti famigliari, nonno Belisario decise che uno dei suoi due figli maschi avrebbe portato avanti la sua impresa, e l’altro, come allora si conveniva in tante famiglie, avrebbe abbracciato la carriera ecclesiastica. Le femmine, avrebbero avuto la loro dote, e sposate sarebbero uscite dalla famiglia. Vittorugo, il figlio maschio più grande, portato per sua natura alla vita da intellettuale, entrò in seminario, prese i voti religiosi, fu ordinato sacerdote. Studiò Scienze Politiche e si laureò in Diritto Canonico con la prospettiva di abbracciare la carriera di Prelato diplomatico per il Vaticano. Ebbe il suo primo incarico come Segretario della Nunziatura Apostolica della Santa Sede a Beirut. Nonno aveva tagliato il suo primo traguardo, ora doveva pensare all’altro più giovane figlio Ferruccio, nato nel 1921, che, sotto la sua lungimirante e visionaria guida, avrebbe portato avanti e accresciuto l’azienda di famiglia. Di estrazione sociale molto modesta, per provvedere alle necessità della famiglia in cui era nato, nonno aveva dovuto abbandonare gli studi e di questo fu sempre rammaricato, ben sapendo quanto nella vita un buon livello di istruzione sia essenziale. Volle pertanto che Ferruccio venisse istruito a modo e studiasse sino a conseguire una laurea. Si è già compreso quanto in nonno Belisario le decisioni discendessero da una forte inclinazione al pragmatismo e riguardo a Ferruccio, per la sua educazione il modo migliore sarebbe stato il collegio, lontano dalle tentazioni giovanili, ma economicamente non potendo permettersi un simile passo anche in questo caso ricorse al seminario. Ferruccio partì a quattordici anni per Beirut dove, per l’interessamento del fratello sacerdote, entrò in seminario e vi restò, senza prendere i voti, sino al conseguimento del diploma liceale, apprendendo nel frattempo la lingua francese e araba. Nel 1939 tornò definitivamente in Italia. Si iscrisse all’Università di Roma, alla Facoltà di Legge. Intanto era scoppiata la seconda guerra mondiale e dopo soli due anni di studio lasciò l’Università per ottemperare all’addestramento militare nel CAR di Moncalieri, dove, con orgoglio raccontava di aver conosciuto, suo coetaneo, Gianni Agnelli, rampollo della famosa famiglia di industriali torinesi. Terminato l’addestramento partì soldato per la guerra in Jugoslavia. Congedato nel 1943 fece ritorno a Gualdo. Nonno, in quei tempi difficili, portava avanti il lavoro con grandi difficoltà e il ritorno a casa di Ferruccio fu provvidenziale. Accantonati momentaneamente gli studi universitari, Ferruccio iniziò a collaborare nell’azienda paterna e da sempre antifascista, tesserato del PCI - Partito Comunista Italiano - cominciò ad interessarsi attivamente alla politica, come contestatore agit-prop. Nel 1944, il Comando tedesco che aveva occupato l’Umbria, in un’azione di rappresaglia alcuni gualdesi colpevoli d’essere partigiani e degli antifascisti ritenuti pericolosi furono condannati alla fucilazione sulla Piazza Vittorio Emanuele II, per questa tragica vicenda in seguito chiamata Piazza Martiri della Libertà. Tra gli antifascisti fu denunciato anche mio padre, ma per puro miracolo, grazie all’aiuto di amici, riuscì a fuggire dal gruppo dei condannati a morte e a mettersi in salvo perdendosi per i vicoli del paese. Divenne in seguito corrispondente de L’Unità, organo ufficiale di stampa del PCI. Nel gennaio del 1945 si sposò. Qualche mese dopo fu decretata ufficialmente la fine della guerra e in settembre, il nove, arrivai io. Ora Ferruccio doveva combattere una nuova guerra, più importante di quella appena terminata, la guerra per il benessere della sua famiglia. Con dedizione totale, iniziò a lavorare insieme al padre e contemporaneamente riprese a studiare. Dopo circa due anni si laureò all’Università di Camerino. Da quel momento fu, sempre e per tutti, l’Avvocato. Sul finire degli anni ’50 l’Italia versava in condizioni precarie. Il conflitto mondiale ovunque aveva portato miseria, distruzione e obsolescenza. Gran parte delle infrastrutture, dai servizi elettrici e telefonici alle reti idriche e stradali, era stata distrutta. L’Industria, il Commercio avevano subito un forte rallentamento e in alcune zone del territorio si erano addirittura fermate. Gli italiani avevano bisogno di case, il cui numero già insufficiente prima del periodo bellico ora, per effetto dei bombardamenti, era aumentato a dismisura. Le macerie degli edifici erano presenti in moltissimi centri abitati. In parole semplici, ma più efficaci, mancava tutto. In questa fase di ricostruzione e di ammodernamento chiunque avesse spirito d’iniziativa e qualche capitale poteva fare grandi cose.

Nel 1951 nacque mia sorella Erica, nel 1955 mio fratello Mario. Essendo il nucleo familiare notevolmente cresciuto mio padre dovette lavorare con instancabile determinazione, vedendo altresì in quel clima di rinascita globale ottime opportunità di avanzamento sociale. Presa in mano la ditta paterna si interessò agli appalti pubblici, riscuotendo molteplici successi.

 

 

 

1955

Intanto io crescevo. Ero un bambino molto vivace, mi piaceva andare in bicicletta, giocare al pallone, stare sempre in mezzo agli amici del mio rione, nelle cui adiacenze c’erano i giardini pubblici. Tra i prati e le viuzze del parco, una piazzetta circolare, completamente vuota, era il nostro quartier generale. In quel piccolo piazzale si organizzavano partite di pallone, gare di tiro con la fionda che io usavo con grande destrezza. La portavo sempre con me, non ne uscivo mai di casa senza averla in tasca. Ne avevo più d’una, le facevo da me. La forcella la ricavavo dalle piantine di ornello che crescevano nelle macchie del paese, e con l’aiuto del fuoco le davo la forma ad U. Gli elastici per armarla provenivano dalla camere d’aria delle moto che un gommista mio amico, mi forniva, il pezzetto di pelle morbida che univa gli elastici, atto a contenere il sasso da scagliare, lo facevo con le linguette di vecchie scarpe. I bersagli preferiti, lucertole, ramarri, piccoli topi di campagna, uccellini impietosamente cadevano uccisi per mano mia. Nascosto come un cecchino dietro un albero o un cespuglio, aspettavo che le malcapitate bestiole entrassero nella linea di tiro e sparavo il colpo. Ero un vero killer.

Alla fionda è legato un episodio importante della mia fanciullezza, occorso nell’estate del 1955. Avvenne alla fine dell’anno scolastico, all’inizio delle vacanze estive. Un fiumiciattolo, vicino a casa mia, scorreva parallelamente alla strada sopraelevata rispetto all’alveo di circa tre metri, protetta da quel dislivello con un muretto sul quale, gambe penzoloni, stavo seduto con lo sguardo rivolto in basso in cerca di qualche preda da abbattere con la fionda. Proprio al limite tra il parapetto e l’acqua vidi una lucertola che se ne stava tranquilla al sole. Per sparare il colpo mi dovetti sporgere. Ignaro dei principi elementari della fisica, mi sporsi sino a portare il baricentro del mio corpo fuori dal muricciolo. Caddi. Per fortuna con le gambe, ma caddi male e mi ruppi la tibia e il perone della gamba destra. Una signora che aveva visto la scena mi venne in soccorso e avvertita mia madre, fui portato all’ospedale. La frattura di entrambe le ossa per fortuna era netta e, con una ingessatura portata per quaranta giorni, guarì perfettamente. Ho ancora impressa nella memoria la sensazione di leggerezza della gamba quando fu liberata dal gesso. Mi sembrava di camminare con una gamba che si sollevava da terra. Però un dolore, non fortissimo ma persistente, mi impediva di articolare il ginocchio. L’ortopedico che mi aveva in cura dapprima pensò si trattasse di un dolore reumatico generato dall’umidità del gesso, ma dopo alcuni giorni il dolore non solo non cessava, ma addirittura aumentava. Il medico pensò che il ginocchio per una torsione anomala nella caduta, avesse riportato la frattura del menisco. Mio padre volle portarmi all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna. Mi fu diagnosticata una osteomielite di origine traumatica all’apofisi della tibia. Iniziò un periodo denso di cure e di privazioni. Dopo forti somministrazioni di antibiotici mi fu prescritto di portare un tutore, una ingessatura rimovibile, applicata alla gamba per mezzo di cinghie, con la funzione di tenere ferma l’articolazione del ginocchio. Avrei dovuto portarla per un anno, togliendola soltanto la sera prima di coricarmi e rimetterla al mattino del giorno seguente. La mia estate, già compromessa dalla frattura, fu irrimediabilmente rovinata da questa nuova infermità. Non potei giocare al pallone né andare in bicicletta. Dovendo muovermi poco, l’unica licenza consentitami consisteva nel fare qualche breve passeggiata ai giardini pubblici, nelle immediate vicinanze di casa. Non c’era molto da divertirsi. Una noia mortale. Fortunatamente ai giardini trovavo spesso qualche amico con cui parlare e, in qualità di arbitro, potevo partecipare alle partite di calcio improvvisate nella nostra piazzetta. Trascorsi così la prima metà delle vacanze estive, poi un giorno arrivarono ai giardini due ragazze molto carine che già conoscevo, ma non avevo mai frequentato. Una si chiamava Alba, di un anno più grande di me, l’altra Ornella, mia coetanea. Vedo ancora nella memoria, quasi in una fotografia, l’immagine delle due ragazze che, conversando, si avvicinano a me seduto su una panchina accanto a una gorgogliante fontanella. Erano vestite entrambe con degli abitini a quadretti bianchi, svasati sulle gambe e stretti in vita, come andavano di moda all’epoca, perché così li portava Brigitte Bardot. Quello di Alba era celeste, l’altro rosa. Erano proprio molto carine. Le ragazze, si sa, sono più precoci dei ragazzi. Con fare disinvolto mi chiesero come mai portassi quello strano coso alla gamba. Spiegai trattarsi di un tutore atto ad inibire l’articolazione del ginocchio a causa di una lesione. Beh! Potevano essere le dieci o forse le undici del mattino, questo non mi sovviene, ma ricordo benissimo che a mezzogiorno ero cotto di Alba, anzi stracotto. Da adolescenti ci si innamora a velocità supersonica. Si resta fulminati all’istante e a questa folgorazione, indistintamente andiamo soggetti tutti. In realtà non si tratta d'innamoramento, ma di una semplice cotta, perché ancora non conosciamo l’amore. Ci sentiamo talmente presi dalla persona oggetto del nostro interessamento che tutti i nostri pensieri sono rivolti a lei e abbiamo l’animo invaso da una sensazione di beatitudine. Vorremmo stare sempre in sua compagnia e la sua sola presenza ci fa sentire appagati, non desiderando altro che vederla, guardarla anche senza parlarle e gli altri non ci interessano più. Il nostro mondo si chiude intorno a lei. La cotta è dolcissima, soprattutto a quell’età. Ci fa vedere tutto rosa, ci innalza al settimo cielo e a quella persona vorremmo dire tante parole, anche se poi il più delle volte non le diciamo nulla. Quella fu la mia prima cotta. Avevo undici anni. Da quel giorno, tutte le mattine quando andavo ai giardini ero trepidante, avevo tanta voglia di vederla, di stare con lei e scambiarci qualche parola. Quando questo accadeva mi sentivo felice, se invece lei non veniva ero triste. Andò avanti così per tutta l’estate, poi tolsi il tutore, ricominciò la scuola e soprattutto ripresi a frequentare a tempo pieno gli amici. Questo reinserimento nella vita di routine fece sì che archiviassi nella memoria quella dolce estate e le emozioni d’amore per la prima volta provate, anche se in seguito, spesso ho pensato ad Alba con gli stessi sentimenti provati in quella tenera età, e il destino ha voluto che da adulti ci incontrassimo ancora.

 

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1956 - 1958

A circa un chilometro di distanza dal paese, ai piedi di una montagna vi era una sorgente d’acqua incanalata in una zampillante fontanella. Gli abitanti di Gualdo Tadino, con taniche e bottiglie ne facevano scorta perché, per la sua leggerezza, si diceva avesse proprietà diuretiche e favorisse lo scioglimento di calcoli renali. Il luogo pedemontano ove sgorga la sorgente si chiama La Rocchetta e quell’acqua da sempre è conosciuta come Acqua della Rocchetta. Nonno Belisario, frequentatore abituale delle Terme di Chianciano, pensando di sfruttarla a fini commerciali la fece analizzare ed essa rivelò avere proprietà diuretiche e antiflogistiche e soprattutto, dotata di un residuo minerale fisso molto basso, era ottimale per sciogliere calcoli renali. Una magnifica acqua termale oligominerale. Ai tempi, famose erano le terme di San Pellegrino, di Boario, di Crodo ed altre ancora. A tutte queste strutture termali l’imbottigliamento dell’acqua era complementare e nonno, in virtù di tale realtà, modificò il suo progetto originale. Centro termale e imbottigliamento dell’acqua divennero il suo progetto. Il sito della sorgente era gestito dall’Ente Appennino Gualdese, ma l’acqua di proprietà del Demanio dello Stato cadeva sotto il controllo del Distretto Minerario di Roma. Ottenuta, con molte difficoltà, la concessione per lo sfruttamento, presero l’avvio i lavori per la realizzazione del progetto nella sua interezza. Nonno Belisario, ormai vecchio e malato di cuore, demandò ogni aspetto realizzativo a mio padre che, sebbene impegnato tra Roma e Perugia per l’acquisizione di tutte le autorizzazioni necessarie, si occupò della costruzione dello stabilimento nonché di ogni pertinenza necessaria, secondo l’interpretazione visionaria del progetto paterno, realizzando sale per la mescita dell'acqua al pubblico, bagni, spogliatoi, locali per un ristorante, una piscina, la prima a Gualdo Tadino, e naturalmente l'impianto di imbottigliamento.

A casa la vita scorreva tranquillamente. Mario era ancora un bimbetto, Erica ormai una ragazzina, io il solito scavezzacollo. Facevo le scuole medie, ma studiavo poco. I miei genitori non ne erano molto contenti, soprattutto mia madre che ci cresceva con amore, ma anche con disciplina, retaggio della sua attività svolta da ragazza, prima di congiungersi in matrimonio. Era stata maestra elementare, professione esercitata sino a quando mio padre volle che lasciasse l’insegnamento per dedicarsi totalmente alla famiglia e governava noi figli con piglio quasi militare. Non ammetteva insubordinazioni, disobbedienza e maleducazione, ma era una mamma dolce e affettuosa, anche se a volte il suo atteggiamento la faceva somigliare a un sergente di fanteria, risoluto e incorruttibile, spesso forse anche un po’ crudele. Ricordo quando tornavo a casa con qualche piccola ferita per essere caduto dalla bicicletta o per aver fatto a botte con un compagno, mi portava in bagno, mi puliva la ferita e mi disinfettava con l’alcol che bruciava. Inutili erano i miei lamenti e gli urli con i quali tentavo di farla desistere. Lei neanche mi guardava e finita la tortura diceva: - La prossima volta ti ci faccio la giunta. - Intendendo con giunta che me le avrebbe suonate, e se la ferita si infettava con una garza ne strappava via la crosta e di nuovo disinfettava con l’alcol. Se Hitler l’avesse conosciuta, l’avrebbe voluta nelle SS. Eh sì, con mamma non era proprio il caso di essere disobbedienti. Una volta sola lo sono stato, per le lezioni di pianoforte che in seguito, quando la musica è diventata una componente importante della mia vita, ho rimpianto di non aver seguito. Mamma giustamente pensava che una buona educazione dovesse comprendere anche la conoscenza della musica e a tale scopo mi fece prendere delle lezioni di pianoforte. Avevo sei anni e forse per il rigore con cui mi venivano impartite, quelle lezioni erano per me una vera tortura. Strimpellare il pianoforte, ricordo, mi divertiva, anche se l’insegnante mi faceva eseguire soltanto scale e semplici accordi, ma mi imponeva interminabili minuti di solfeggio che non riuscivo a sopportare e tanto feci che mamma desistette e abbandonai lo studio della musica e del pianoforte. A mia discolpa posso dire che se l’insegnante avesse dedicato meno tempo al solfeggio e un poco più a farmi suonare, probabilmente avrei continuato nello studio. In fondo non dovevo mica diventare Arturo Benedetti Michelangeli? Credo l’errore sia stato questo! Feci le scuole medie all’Istituto Salesiano di Gualdo Tadino. Nei tre anni il mio profitto scolastico non fu mai buono, addirittura in seconda media fui rimandato agli esami di riparazione che fortunatamente superai, ma la cosa si ripeté in terza media e allora il collegio divenne inevitabile, anche se nonostante la bocciatura, ricevetti da mio padre un bellissimo regalo: un ciclomotore tedesco a due marce, un Capriolino NSU. L'anno successivo, avendo conseguito un buon profitto scolastico, babbo mi cambiò il Capriolino con un Itom Sport, una piccola motocicletta, con la sella lunga, dalla foggia identica alle grandi moto, con il cambio a tre marce. Non superava i cinquanta chilometri all’ora, ma quando vi ero sopra la guidavo in posizione aerodinamica, con il corpo allungato sulla sella, le braccia tese e la testa piegata sul serbatoio, come al cinema vedevo sfrecciare sulle piste Ubbiali, Pagani, Duke, i grandi campioni dell’epoca. Anche alcuni miei amici avevano il motorino e ricordo le nostre volate, si fa per dire, sul primo tratto pianeggiante della strada che da Gualdo conduce a Perugia. Nella nostra mente di ragazzi ci sembrava che il rumore desse maggiormente il senso della velocità e allora toglievamo le marmitte di scarico e con un chiasso infernale ci sfidavamo in interminabili duelli di velocità a cinquanta chilometri orari. Ricordo ancora tutti i motorini. Io avevo un Itom Sport, Carlo un Ganna, Angelo un BM, Primo un Motom e Gianni un Itom Super Sport. Avevamo quattordici, quindici anni. Angelo il più grande ne aveva diciassette. Siamo sempre restati amici. Angelo e Carlo non ci sono più.

Con Luciano, il più caro amico, in sella al mio Itom, armati di carabina a pallini, andavamo in giro per le pinete a sparare a qualunque cosa si muovesse. Gli scoiattoli, poverini, erano i bersagli più ambiti. Se ripenso a quanti ne abbiamo uccisi mi assale la tristezza perché li decimavamo per il solo piacere di sparare, ma i ragazzi raramente hanno problemi etici e noi non facevamo eccezione. In motorino, anche d'inverno partivamo al mattino presto per andare a caccia, inoltrandoci su strade di montagna, a volte troppo ripide per la piccola motocicletta gravata dal peso di entrambi e allora ci si alternava alla guida, e nei punti più ripidi chi non guidava scendeva e spingeva fino a quando in due si poteva riprendere la corsa. A volte, con canne e lenze raffazzonate, si andava a pescare nei fiumi intorno al paese, ma il luogo preferito era il vascone di raccolta dell'acqua in esubero della sorgente Rocchetta che l'Amministrazione del sito aveva popolato di trote. La pesca naturalmente vi era vietata ma questo per noi non era un impedimento. In seguito, diventati maggiorenni, arrivarono le macchine e a Sigillo, un paesino a pochi chilometri da Gualdo, iniziammo a corteggiare le prime ragazze. Insieme a Luciano ho trascorso gli anni più sereni dell'adolescenza e anche in seguito siamo restati ottimi amici. Tuttora lo siamo.



 

LA PRIMA GIOVINEZZA


 

1959

Entrai convittore al Collegio della Badia Fiesolana a Firenze, gestito da frati Scolopi, dove sarei rimasto sino al conseguimento della maturità classica, un ottimo collegio, con professori religiosi e laici. Il giorno del mio ingresso, quando ci lasciammo, mia madre non disse una parola, pur vedendosi quanto fosse triste, mio padre invece pianse. Fu l’unica volta in cui lo vidi piangere, non l’ho mai dimenticato. Ormai ero preso in trappola. Dovevo assolutamente applicarmi allo studio. Essere bocciato da convittore sarebbe stato imperdonabile. Non accadde mai. Superai brillantemente sia i due anni di ginnasio che gli altri tre di liceo. Il collegio cambiò radicalmente la mia vita. C’erano ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia, tutti di buona estrazione sociale. La mia educazione paesana si affinò. Imparai persino a fare il baciamano alle signore. Divenni amico di figli di grandi industriali e di nobili appartenenti ad antiche famiglie, con parecchi dei quali, ancora oggi, sono amico. Ma non fu solo la vicinanza a quelle nuove amicizie e lo studio a formare la mia personalità e la mia cultura. Verso la metà del primo anno di collegio mi ammalai di una lunga e fastidiosa broncopolmonite. Dovendo essere sottoposto a cure costanti e ad un certo rigore di vita, pur continuando a frequentare la scuola, andai a vivere da miei zii Franco e Maria per circa due mesi. Vasco, il loro cameriere ogni giorno al termine delle lezioni veniva a prendermi in macchina e mi portava nella loro casa, dove mia nonna Amedea, venuta appositamente da Gualdo, si occupava di me, facendomi prendere le medicine e rimpinzarmi di cibo che lei sosteneva essere la miglior cura per ristabilire il mio fisico indebolito dai farmaci e dalla malattia. Vissi quindi due mesi, isolato dai miei amici di convitto e solitarie erano le mie giornate. Nella casa c’era un salotto con una biblioteca molto ben fornita, il luogo che preferivo e passavo ore intere a leggere qualche pagina qua e là dei tanti libri che vi si trovavano. Tra tutti mi colpì una collana di libri d’arte. La mia conoscenza della pittura era piuttosto limitata e ferma ai classici del Rinascimento dei quali, durante le scuole medie, i professori ci avevano talvolta parlato e mostrato alcune opere e quando nella piccola biblioteca scoprii Monet, Renoir, Degas, Manet, Sisley e tanti altri artisti di quel fecondo periodo francese, il mio concetto d’arte cambiò radicalmente. Conquistato dalla continua evoluzione dell’arte, sfogliai ogni libro che trovavo per colmare la lacuna della mia cultura pittorica. Masaccio, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Rembrandt, Goya mi affascinarono. Da quel momento la pittura divenne la mia grande passione. La vista di opere superbe mi rallegrava l’animo e mi dava una gioia che tutt’oggi ancora provo quando guardo un dipinto. Mi innamorai dell’Arte, di un amore illimitato che mai è scemato. Firenze, culla del Rinascimento italiano, è depositaria di capolavori unici al mondo che, per la loro eleganza e perfezione esecutiva glorificano il genio di uomini eccellenti. Il Duomo, il Battistero, il Campanile di Giotto, la Basilica di Santa Croce, la Chiesa di Santa Maria Novella, la Loggia de’ Lanzi, gli Uffizi, Palazzo Pitti e via dicendo mi ammaliavano per la loro storia, per la loro bellezza, per la preziosità delle opere di inestimabile valore che contenevano. Conobbi Giotto, Cimabue, Brunelleschi, Masaccio, Botticelli e tanti altri artisti di eccelsa genialità. Da quei giorni l’Arte sarebbe stata la più amata e fedele compagna della mia vita. Una compagna di viaggio che mi ha guidato nei Musei e nelle gallerie internazionali più prestigiose, dal Metropolitan Museum di New York, alla National Gallery di Londra, a El Prado di Madrid, al Louvre di Parigi, ai tanti Guggenheim, Pinacoteche e Gallerie d’arte del mondo.

Zio Franco, affascinante, alto, prestante, sempre elegantissimo, amante delle belle cose e delle macchine sportive, era dentista. Aveva uno studio a Firenze, in Via Por Santa Maria, in prossimità del Ponte Vecchio. Naturalmente ero frequentemente a casa sua. Abitava in una villa appena fuori Firenze sulla Via Chiantigiana, ove viveva con una signora, Maria Moradei che era stata sposata, con cui non convolò mai a nozze e i loro due figli. La sua compagna, Maria, che io affettuosamente chiamavo zia Maria, mi voleva bene, era sempre gentile e carina con me. Mi legai molto a lei e spesso veniva a farmi visita in collegio, a San Domenico di Fiesole, dal quale in prossimità del campetto di calcio dell’Istituto si vedeva la sua grande villa avita. Un giorno venne a prendermi in convitto con una Aurelia, se ben ricordo, guidata dal suo autista per condurmi al cinema a vedere Irma la dolce, con Shirley MacLaine e Jack Lemmon. Un film divertentissimo che mi fece tanto ridere e lei rideva insieme a me. Usciti dal cinema mi portò da Rivoire in Piazza della Signoria, una pasticceria storica di Firenze dove si può gustare dell’ottimo cioccolato. Ero molto legato a quella signora e quando anni addietro morì ne soffrii molto. I Moradei, benestanti, commercianti di abbigliamento, avevano tre negozi. Due a Firenze, in Borgo San Lorenzo e in Via Martelli e il terzo a Forte dei Marmi ove avevano anche una bella villa in Via Roma Imperiale. In quella casa vi trascorsi una vacanza estiva molto divertente, piacevole. Non che abbia fatto niente di particolare, avevo quindici anni, ma ricordo le belle giornate al mare tra bagni e riposini sotto l’ampia tenda della spiaggia. A Forte dei Marmi, spiaggia di alto livello, non si usavano gli ombrelloni, ma larghe tende arredate con tavolo, sedie e comodi lettini. All’ora dell’aperitivo i miei zii bevevano Campari soda ed io mangiavo i brigidini, dolci cialde all’aroma di anice. A sera le signore, elegantissime, accompagnate dai loro cavalieri su macchine favolose arrivavano alla Capannina di Franceschi, il ritrovo più chic della riviera della Versilia, nel cui parcheggio antistante il locale si vedevano le automobili più esclusive. Fu una bella estate e per la prima volta osservai da vicino il bel mondo italiano vacanziero. Quella breve vacanza segnò un punto fermo nella mia vita. Da grande avrei voluto vivere in quella maniera, accompagnato da donne stupende che avrei portato a spasso su di una bella automobile sportiva. Ero un ragazzo, ma avevo già capito quante cose belle ci sono al mondo e le volevo. Nel frattempo i miei zii si separarono e, sebbene continuassi ad avere frequentazioni con lo zio, zia Maria la persi di vista, ma il suo ricordo ancora mi accompagna. Firenze fu la prima delle grandi città in cui ho vissuto e molto di quello che vi ho visto e conosciuto ha condizionato la mia vita. E’ una città che porto sempre nel cuore, tanto che almeno una volta all’anno sento il bisogno di rivedere.

Gli anni di collegio passavano e quando tornavo a casa ogni volta mi riconoscevo sempre meno tra gli abitanti della mia città. Non mi sentivo più gualdese. Il mondo, con le sue meraviglie, era entrato in me e insieme al sangue scorreva nelle mie vene. La velocità mi appassionava, ma non sapendo niente di motori, di meccanica in generale, per me la macchina più bella era quella più veloce. Quando le vedevo ferme in strada, la prima cosa che guardavo era il contachilometri. A Gualdo non c’era molto da vedere. Babbo aveva una Alfa Romeo Giulietta TI che segnava centocinquanta, mio zio una Giulietta Sprint veloce che arrivava a centottanta, ma a Firenze scoprii ben altri record, non solo di velocità, ma anche di bellezza. Vidi macchine di cui avevo conoscenza soltanto da Quattroruote, la rivista di automobilismo più diffusa. Nelle strade vedevo passare Jaguar, Mercedes, Maserati e…Ferrari. La prima Ferrari che ebbi modo di guardare a lungo era una 250 GT Berlinetta del papà di un mio amico di collegio. Grigio metallizzata, a due posti, con le ruote a raggi, il volante Nardi rivestito in legno a tre razze, con un cruscotto degno di un aereo. Sul tachimetro lessi trecento. Rimasi folgorato. Da quel momento la Ferrari divenne per me l’unica vera automobile che valesse veramente la pena di guidare. In quell’istante presi una decisione: in futuro ne avrei avuta una. La passione delle automobili di cui ero stato contagiato, continuò a crescere attraverso mio padre che prosperando nel suo lavoro, acquistava e cambiava automobili molto in fretta.

 

 

 

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