Libri & Arti
belisariorighi scrittore fotografo critico d'arte
Belisario Righi
Perugia - Italia
belisario.righi@gmail.com
DONNE
Rimembranze e Ricordi
Belisario Righi
* * *
COS’E’ UN DIAMANTE?
Carbone, pressione, temperatura, tempo. Quattro parole, quattro entità separate che sembrano non avere alcuna attinenza reciproca, però prendete un pezzo di carbone, sottoponetelo a fortissime pressioni e contemporaneamente ad altissime temperature per qualche milione di anni e otterrete la più splendida delle pietre, la più preziosa delle gemme: il diamante. Impareggiabile per lucentezza, ineguagliabile per durezza, è dotato di magiche proprietà. Immergetelo per tutto il tempo che volete nell’acqua e quando ne uscirà sarà asciutto e secco come tirato fuori dall’ovatta. Non si bagna. L’acqua non riesce a depositarsi sulla sua superficie tanto è compatta. La più temprata delle punte d’acciaio non lo scalfisce, eppure anche se il suo sistema di cristallizzazione è cambiato è rimasto carbone, al punto che se lo butti sul fuoco si incenerisce e tutta la sua durezza scompare in un attimo. Ha carattere proteiforme e questo ne fa uno dei prodigi della natura. Tempo, pressione e temperatura in una inarrestabile e continua azione sinergica, riescono a trasformare un volgare, nero, friabile pezzo di carbone in lucente, durissimo diamante. Il risultato di questo apporto coordinato e concomitante di fattori è strabiliante.
Ebbene, strabiliante, luminosa come un brillante, è stata la mia vita, formatasi, unendo amicizie e azioni, di non eccessivo conto forse, ciascuna presa nella propria individualità, che però fuse insieme hanno segnato in maniera irreversibile e determinante la mia esistenza, fatta di lavoro, di divertimento, di gioia, di passioni, spesa tra momenti di grande dinamismo e pause di pura riflessione. Di questo intendo parlare, perché si dovrebbe, almeno per un breve periodo, poter vivere in questa maniera per poi non avere rimpianti quando e per l’età e per altri fattori incontrollabili le cose cambiano e non c’è più tempo da dedicare a noi stessi, immersi nella stolida quotidianità della vita, fatta di impegni, legami e doveri. Soprattutto doveri che, con la loro improcrastinabilità, avvelenano l’esistenza e, violentando con la loro incalzante consuetudine ed il loro dogmatico asservimento, tolgono il piacere dell’imprevedibile e costringono a rinunciare alle proprie fantasie, rendendo evanescenti ogni più intima e segreta aspirazione. E cos’è che più di ogni altra cosa, se non la donna, stimola la fantasia di un uomo e ne modella il carattere perché si ponga degli obiettivi, e raggiungedoli realizzi le proprie aspirazioni?
La donna si dice sia l’altra metà dell’uomo ed io pur interessato alle sue grazie fisiche, soprattutto sono sempre stato attratto dalla sua personalità, il cui influsso ha rivestito un ruolo decisivo nella formazione del mio co-strutto emozionale. Mi è impossibile, tante sono in abbondanza, elencare le sensazioni, altrimenti inespresse, provate attraverso la sua frequentazione. Ho avuto contatti con femmine bellissime, mediamente belle e decisamente non belle, ma mai brutte. La donna talvolta può essere dotata di considerevole avvenenza fisica e allora apprezzarla è consequenziale, ma quando la bellezza non è strepitosa o addirittura assente, può esservi comunque, dovuta a peculiarità intellettuali, una sorta di magnetismo che attrae e concupisce e allora non si può né si deve parlare di bruttezza. Brutto è ciò che è volgare, che ferisce e non ciò che non riesce ad esaltare il senso estetico. Brutto è ciò che offende, che mette a disagio e quando una signora si offre, non è per offendere, ma per donarsi e un dono non può essere offensivo. Le storie qui narrate si riferiscono a donne spesso molto belle, ma non per questo sono state riportate. Ho inteso raccontare di atteggiamenti e non di bellezza e se nella narrazione, talvolta ho indugiato su atti erotici nella loro crudezza, è stato solamente per meglio descrivere il carattere delle protagoniste.
ANTONIETTA
A Torino, a pochi metri da casa mia, in Corso Unione Sovietica nelle vicinanze dello stadio comunale c’era un bar, ritrovo dei tifosi di calcio, dove non mancavano gli sfaccendati che passavano la giornata a far niente e i soliti bulletti di periferia vestiti sempre di tutto punto con pantaloni a zampa di elefante e strettissime giacche come allora imponeva una certa moda di dubbio gusto. Tra questi suburbani dongiovanni c’era Roberto che, oltre a quegli orribili tagli di abito, sfoggiava un’acconciatura di capelli talmente voluminosa e appariscente, da essere per questo soprannominato Beethoven, in omaggio alla copiosa capigliatura del grande musicista. Era un bravo ragazzo. Un po’ sul burino, ma nel suo genere belloccio e si vedeva spesso accompagnato a qualche ragazzetta che ostentava con modi da gran viveur. Una sera, al volgere del mese di maggio, verso l’ora di cena arrivò al bar con Antonietta, una giovanissima ragazza. Alta, snella, con uno splendido seno e un viso stupendo, aveva il corpo di una donna. Pensai dovesse avere non più di diciotto, diciannove anni. Abitava nei paraggi, in Via Filadelfia. Di origine jugoslava, lavorava come commessa in un negozio di dischi in Via Sacchi vicino alla stazione di Porta Nuova. Dopo qualche giorno, Antonietta iniziò a farsi vedere da sola. Si fermava a fare due chiacchiere prima di rincasare dopo essere uscita dal lavoro. Al ripetersi delle sue apparizioni senza Roberto, ebbi la certezza che l’idillio tra i due si fosse spento. Era l’occasione perfetta per farmi avanti, ma considerata la giovane età della ragazza volli mantenere una certa riservatezza. Avvicinarla lontano da occhi indiscreti sarebbe stata la soluzione migliore. Avrei avuto maggior libertà di azione e più spregiudicatezza. Pensai di incontrarla all’uscita dal lavoro e una sera, tenendomi in disparte per non essere notato, la vidi lasciare il negozio e andare alla stazione di Porta Nuova a prendere il filobus che l’avrebbe riportata a casa. Per arrivarci Antonietta doveva camminare circa cinquanta metri sullo stesso marciapiede dove si trovava il negozio, prima di attraversare la strada per giungere alla stazione, situata nella parte opposta. Una provvidenziale cartoleria stava proprio all’altezza del semaforo del passaggio pedonale, ed io mi sarei potuto trovare casualmente lì. Il giorno seguente alle sette e mezzo, sull’uscio della cartoleria con un quaderno di appunti ben visibile in mano, aspettai che lei uscisse. Appena Antonietta apparve sulla porta del suo negozio rientrai nella cartoleria e quando lei arrivò a pochi passi da me, uscii e ci trovammo casualmente l’uno di fronte all’altra. Constatai con soddisfazione la sua gradevole sorpresa nel vedermi. Con nonchalance, la salutai con uno squillante ciao che ricambiò con un sorriso e un e tu che fai qui?
- Sto tornando a casa. Mi sono fermato in cartoleria per acquistare un blocnotes, tu invece? -
- Lavoro qui, in quel negozio di dischi (indicandolo con la mano) e ho appena terminato di lavorare. Vado a prendere l’autobus per rincasare. -
- Se vuoi, ti accompagno in macchina. -
- Sì, grazie, perché no? -
Mentre raggiungevamo l’auto parcheggiata poco distante, osservavo con quanto interesse gli uomini la guardassero. Già alta per sua natura, con le scarpe a tacco alto che indossava mi sovrastava di almeno quattro dita. Le sue gambe lunghe e affusolate si muovevano in una falcata lunga e ancheggiante che evidenziava un magnifico fondoschiena stretto in una piccola e aderentissima minigonna. Erano gli anni in cui Mary Quant, con le sue microscopiche gonne, aveva reso maggiormente desiderabili donne già molto attraenti. Antonietta era una di queste. Poche altre volte ho visto donne in minigonna altrettanto glamour. Tutti gli uomini la osservavano ammirati, però i loro sguardi m'imbarazzavano e accendevano nel mio animo incomprensibili moti di gelosia. La conoscevo appena ed ero già geloso. In quella circostanza compresi quanto sia difficile avere al proprio fianco una simile femmina.
L’eccesso, a prescindere, è comunque un difetto e come tale genera sempre colpe. Nel caso specifico, la colpa di Antonietta era di essere troppo desiderabile, cosa che a lungo andare avrebbe avvelenato la vita di qualsiasi uomo le fosse stato accanto, ma su quel breve tratto di strada, nonostante la mia illogica gelosia, mi sentivo l’uomo più felice del mondo. Antonietta era stupenda e aldilà di semantiche riflessioni sulla bellezza, starle vicino mi dava un immenso piacere.
Arrivammo alla macchina che, approfittando del clima mite dell’imminente estate, avevo lasciato scoperta. Lei conosceva la mia auto per averla vista più di una volta al bar e mi sembrò felice di salirci. Cercai di sfruttare al massimo il momento e quei tre o forse quattro chilometri di strada tra Porta Nuova e Via Filadelfia impiegai a percorrere quasi venti minuti, rallentando in continuazione per lasciare attraversare la strada a un pedone o per il giallo di un semaforo. Sfruttavo ogni occasione per perdere tempo e prolungare il più possibile quel momento d’intimità. Le chiesi, poiché mi aveva detto di non poter uscire dopo cena e di lavorare anche l’intero sabato, se avesse avuto piacere di passare una domenica pomeriggio con me per un giro in macchina sulle colline torinesi.
Accettò l’invito con entusiasmo. Raggiante di contentezza mi avviai nelle vicinanze della sua abitazione dove mi chiese di scendere, per non essere vista dai suoi familiari.
La salutai, ricordandole che domenica saremmo stati insieme. Come quando s’intraprende un viaggio, sapendo che all'arrivo ci attendono cose piacevoli, il tempo non passa mai, così, con l’animo colmo di compiacenti aspettative, mi sembrò che la domenica non dovesse arrivare più. Non so in quante maniere diverse programmai quel primo appuntamento. In quei giorni di attesa purtroppo non potei vederla. A breve mi aspettava Fisica II, uno degli esami più impegnativi e basilari del biennio, che mi teneva occupato fino a tarda sera presso la casa di un mio compagno di Università con il quale studiavo e dove, per protrarre lo studio anche dopo cena, mi fermavo a mangiare grazie alla cortese ospitalità di sua madre che ricordo, ancora oggi, con grande rispetto e gratitudine. Finalmente arrivò la domenica. Verso le tre del pomeriggio, con qualche minuto di anticipo mi recai alla fermata di un mezzo pubblico, luogo concordato per l’appuntamento. La vidi scendere dal tram in un corto abito azzurro che modellava tutte le sue forme. Le andai incontro salutandola con un buffetto sulle guance e salimmo in macchina per iniziare il nostro primo pomeriggio insieme. Appena si sedette, l’abitino corto e non troppo stretto, lasciò intravedere uno scorcio delle sue candide mutandine. La pressione mi salì al massimo livello, ma riuscii a trattenermi dal guardare. Torino, di là dal Po, ha soprattutto in primavera delle colline bellissime con ville magnifiche e tortuose strade divertenti da percorrere in macchina. Antonietta era allegra e molto loquace. Parlava di tutto con gioia e piacere. Non era solo bella, aveva un carattere aperto, si esprimeva semplicemente e con naturalezza disse di avere sedici anni. Mi sentii improvvisamente inibito e condizionato nel comportamento. Ammetto di avere avuto paura, pensando a cosa sarebbe potuto accadere se i suoi genitori fossero venuti a conoscenza di questa nostra amicizia. I miei intenti erano, almeno per me, chiarissimi. Volevo averla, la sua vicinanza mi dava i sudori freddi e il mio livello di testosterone penso arrivasse oltre la soglia misurabile, ma c’era il problema dell’età. Trovandomi per la prima volta con lei in una situazione introduttiva ad accadimenti di un certo tipo, non sapevo come impostare la mia linea di condotta. L’educazione, il senso morale m'inducevano a profonde riflessioni che mi portavano a scartare ogni possibile rapporto che non fosse di natura contemplativa, ma il diavoletto che era in me mi ripeteva in continuazione di non lasciarmi sfuggire una preda tanto incantevole e desiderabile. In questa altalena di sentimenti contrapposti passai le prime due ore del nostro pomeriggio, limitandomi a parlare, a scherzare e niente più. Avevo timore di imprimere a quell’incontro una condotta che mi facesse oltrepassare il punto di non-ritorno, sebbene in cuor mio non desiderassi altro, ma m’immaginavo le conseguenze nefaste che ne sarebbero potute derivare. Mi vedevo, come in un dramma siciliano, già legato a questa donna bambina con un forzato matrimonio riparatore. L’idea mi rabbrividiva, se considero che soltanto a quarant’anni ho pensato per la prima volta al matrimonio, ma subito dopo aver covato questi nefasti pensieri la immaginavo tutta nuda distesa sul mio letto, pronta per essere colta come una mela da un albero e questa ipotesi, al contrario delle altre di stampo squisitamente platonico, mi allettava molto di più. Poi, mi venne in mente Beethoven.
Mi chiesi: - E se Roberto…- Questa eventualità mi sollevava un poco. Mi forniva in qualche modo quell’alibi morale che andavo cercando. Cominciai allora, subdolamente a farle qualche domanda sul suo ex amico, cercando, con mezze frasi a doppio senso, di farle dire quello che tanto desideravo udire. Antonietta, con la sua pronta intelligenza, intuì quello che tentavo di chiederle e mi confessò candidamente di non essere più vergine. L’intraprendente Beethoven mi aveva aperto la strada. Adesso la situazione era diversa e la mia coscienza ne era un poco alleggerita. Iniziai allora un’inversione di rotta e sfoderai tutte le mie arti di seduzione, facendole una corte discreta ma convergente all’obiettivo. Dopo un lungo giro per le colline ci fermammo in una piola e seduti a un tavolo, con la classica tovaglia a quadretti, ordinai pane, prosciutto e vino. Un bicchiere le fece subito effetto e le sue movenze di ragazzina, scoordinate dal vino, su quel superbo corpo di donna, fondendosi in un amalgama di tenerezza e sensualità, creavano una dissonanza coinvolgente oltre ogni misura. Nei suoi occhi l’innocenza del divertimento commista ad una pulsione spinale accendeva una luce inquietante che mise a dura prova il mio autocontrollo e noncurante di chi avrebbe potuto vederci, la baciai e lo feci con così tanto trasporto che lei lasciò cadere morte le braccia e indifesa si abbandonò alla voluttà di quelle amplesso. Smarrita e felice si strinse a me con forza, quasi avesse il timore che me ne andassi. Risalimmo in macchina e cintala con un braccio intorno alle spalle l'avvicinai a me. Era felice. La baciai di nuovo, questa volta con più dolcezza. Accesi il motore. Mi portai cento metri più avanti, lontano dagli occhi indiscreti della piola e mi fermai. Continuammo a baciarci e presi a sfiorarle timidamente le gambe. La sentivo fremere, era eccitatissima, ma mi fermai. Non volli andare oltre per non rovinare quell’attimo dolcissimo. Non mi è mai piaciuto fare l'amore in macchina e Antonietta meritava ben altro. Erano appena le cinque e soltanto alle otto avrei dovuto riaccompagnarla a casa. Avevo ancora tempo ed ero talmente esultante che volevo condividere quella felicità con qualcuno. Mi venne voglia di vedere Paolo, un carissimo amico che abitava non lontano da me, dall’altra parte dello stadio, in Via Montezemolo. Per scrupolo, strada facendo gli telefonai. Non c’era, ma andai ugualmente, sperando di trovarlo da Sergio, una cremeria dirimpetto a casa sua. Era lì e parlottava con un gruppo di persone. Gli presentai Antonietta. Paolo si profuse in una dovizia di complimenti e felicitazioni, quasi avessimo dovuto sposarci il mattino seguente e ci invitò da lui. Trascorso appena un quarto d’ora, Paolo intuite le mie intenzioni, con una scusa si allontanò, lasciandoci soli. Seduti sul divano, continuammo il nostro innocente flirt. Ero combattuto. Non sapevo se passare subito a vie di fatto o continuare con quegl’innocenti preliminari. Mi piaceva baciarla e non avrei voluto smettere mai di farlo. Chissà, forse mi stavo innamorando. Lei si abbandona completamente alle mie effusioni. Sul divano, io seduto e lei allungata con il capo poggiato sulle mie gambe, ci scambiavamo affettuosità e carezze. Antonietta mi chiese se in casa ci fosse della musica. Paolo aveva un mangianastri e lo cercai, senza trovarlo, nei mobili della stanza. Era in un comodino della camera. Mi sedetti sul letto e lo accesi. Le note di Mi ritorni in mente, una hit di Lucio Battisti, si diffusero per la casa. Antonietta sentì la musica e il canto venne da me. Dalla vita non si può avere tutto. Lei che aveva avuto la bellezza, in quanto a voce era stonata come una cornacchia, ma cantava con così tanto trasporto che non la interruppi. Continuando a deliziarmi con i suoi gorgheggi se ne andò nel bagno. Pensai fosse giunto il momento di stringere i tempi. Non volevo fare la parte del timido inconcludente, ma piuttosto dimostrarle quanto la desiderassi e quanto fossi attratto da lei, dalla sua femminilità e mentre ero preso da questi pensieri, appoggiata allo stipite della porta della camera, con le sue lunghe gambe, magnificate da scarpe con tacchi a spillo, coperta solamente di bianca e minuscola lingerie, Antonietta mi apparve in tutta la sua prorompente bellezza. Sul suo viso, dallo sguardo trasognato e gli occhi languidi, carichi di dolcezza e di desiderio, si leggeva un’espressione densa di complicità e accondiscendenza. Non riuscii a dire niente e avvicinandosi a me, ondeggiante sugli alti tacchi, quel suo corpo splendido mi estasiò per la sua perfezione e l’erotismo che emanava. Mi alzai dal letto e lei in piedi, le tolsi quella conturbante biancheria intima, estremo baluardo di una fortezza ormai espugnata. L’adagiai nuda sulle lenzuola e ci amammo senza risparmio. Lei ricettiva al massimo gemeva di piacere. Con mia grande soddisfazione mi disse che con Beethoven, l’unico uomo che aveva avuto, non era mai arrivata all’orgasmo.
Alle otto meno un quarto, giusto in tempo per condurla a casa, uscimmo dall’appartamento di Paolo. Entrambi cambiati, non eravamo più le stesse persone di poche ore prima. Io avevo fatto l’amore con una delle donne più belle, forse la più bella, che abbia mai avuto e lei, per la prima volta, era innamorata. La nostra storia si protrasse ancora per qualche tempo. Due o tre sere a settimana, rincasando dal lavoro, passava a casa mia. Aveva lasciato credere ai genitori di doversi fermare in negozio qualche minuto oltre l’orario stabilito. In questa maniera riusciva a guadagnare quel po’ di tempo che ci bastava perché potessimo incontrarci. La nostra storia proseguì in questo modo per altri due mesi. Ci vedevamo fugacemente due o tre volte durante la settimana all’uscita dal lavoro e la domenica pomeriggio. Era sempre carina, piena di attenzioni. Nell’amore si concedeva completamente e a dispetto della sua verdissima età era disinibita al massimo, però nonostante mi facesse letteralmente impazzire per la sua bellezza e sensualità, finii con lo stancarmi. Oltre all’amore fisico, desideravo anche altre cose. Sarei voluto uscire qualche volta dopo cena, per stare con i miei amici che durante il fine settimana andavano in giro per discoteche, mi sarebbe piaciuto portarla a qualche party, ma non era possibile. Volevo farmi vedere con lei. Era talmente bella che già immaginavo le facce dei miei amici del Caffè Torino. Purtroppo questi miei irrealizzati e (soltanto oggi me ne rendo pienamente conto) infantili desideri, finirono col farmi allontanare da lei. Del resto, a che serve un bel vestito se lo puoi indossare soltanto dentro casa tua? Che valore ha il denaro se non puoi spenderlo? Tutto ciò che dà lustro e mette in luce perde il suo valore se non può essere condiviso con altri e così accade con una bella donna che, se non c’è nessuno a guardarla quando sei con lei, finisci col non guardarla più neppure tu. Giorno dopo giorno mi venne a mancare persino la voglia di farci l’amore, fino a quando lei, accortasi del mio cambiamento, iniziò a diradare gli appuntamenti. Passò qualche settimana e non ci si vide più. Quando ormai già da tempo non abitavo a Torino, dove però tornavo spesso, diversi anni dopo, un sabato sera d’inverno, mentre stavo al Whisky Notte con degli amici, la rividi seduta ad un tavolo con altre persone. La riconobbi immediatamente, anche se la maggiore età l’aveva cambiata. Si era trasformata in una donna elegante, raffinata e particolarmente intrigante perché il suo viso aveva conservato la dolcezza dei lineamenti della prima giovinezza, ma il tempo vi aveva aggiunto un'espressione di sensualità che la rendeva incredibilmente affascinante. Stetti per qualche secondo a guardarla, quasi a volermi sincerare che fosse veramente lei, poi anche Antonietta si accorse di me. Dopo avermi lanciato uno sguardo commisto di sorpresa e incredulità, le sorrisi. Ricambiò il sorriso. Rivedendo quell’espressione gioiosa e felice, un turbine di ricordi mi assalì e ripensai ai tanti bei momenti trascorsi insieme. E’ strano come il tempo modifichi i ricordi. In quegli attimi non riuscii a pensare ad altro che alle sue risate, alla sua voce stonata, alla sua gioia contagiosa e nemmeno per un istante mi sovvenne il suo ricordo come amante né il suo magnifico corpo nudo che tante volte avevo avuto a contatto della mia pelle. Di lei rammentavo solo la sua tenerezza. La sua femminilità nonché il suo prorompente erotismo se n'erano andati, stinti dal tempo. Avrei voluto averla ancora una volta per coprirla di baci e di carezze. Soltanto allora capii di aver avuto una storia bella e pulita. Preso dalla malinconia, girando le spalle ai tavoli, i gomiti appoggiati al banco, continuai a bere cercando di scacciare la tristezza che mi stava prendendo l’anima. Un po’ d’aria pura, pensai, avrebbe fugato dal mio cuore l’amarezza. Salutai gli amici assicurando che ci saremmo rivisti l’indomani. Uscii e m’incamminai verso la macchina. Avevo fatto pochi passi fuori del locale, quando mi sentii chiamare. Era lei, avviluppata in un cappotto scuro. Mi avvicinai e d’istinto l'abbracciai.
Sebbene fra noi due si frapponessero i nostri soprabiti, sentii premere contro il torace il suo seno e avvertii il suo buon profumo. Con l’aria fredda che stemperava il caldo dei nostri visi e la consapevolezza di aver ritrovato qualcosa di importante che entrambi credevamo perduta per sempre ce ne stavamo muti e abbracciati in mezzo alla strada, a quella tarda ora. Fu lei a rompere il silenzio, chiedendomi come mai mi trovassi a Torino. Le risposi che ero venuto per passarvi il weekend e che il lunedì mattina sarei ripartito.
- Sei solo? -
- Sì.
- Allora abbiamo due notti e un giorno.
- E’ indescrivibile la felicità che provai.
Era sempre stata una chiacchierona, ma in quella circostanza con pochissime parole si era espressa in maniera esaustiva ed efficace e soprattutto aveva cancellato in un attimo tutti quegli anni che ci avevano separato. Ricominciavamo da quell’ultimo giorno di parecchi anni prima come nulla fosse accaduto, come se questo lasso di tempo non avesse apportato alcuna modificazione ai nostri sentimenti, alla nostra voglia di stare insieme. Tutto era trascorso senza soluzione di continuità, come se il tempo non fosse passato.
- Dove sei alloggiato? -
- All’albergo Mediterraneo. -
- Andiamo a prendere la tua roba e vieni da me. Ora abito da sola in un appartamento qui in centro. Faccio la mannequin e guadagno abbastanza da permettermi una vita indipendente. -
- Complimenti di tutto cuore! Sei brava e lo meriti. Ma stai con delle persone, te ne puoi andare così? -
- Non c’è problema, sono soltanto amici. Sono sola. -
- Bene, allora andiamo. -
In albergo, in un batter d’occhio, saldai il conto, feci la valigia e ci avviammo verso casa sua. Aveva un alloggio, all’ultimo piano di un palazzo in Piazza Solferino. Un appartamento arredato con gusto e con belle cose, un po’ disordinato e vissuto, come ci si aspetta da una persona giovane che vive il suo tempo. Era molto accogliente e mi sentivo a mio agio. All’ingresso ci accolse un bellissimo salotto con due divani disposti ad angolo e un tavolo colmo di riviste e argenti. Un grande tappeto Nain blu e bianco, disteso su una moquette crema, copriva quasi tutto il pavimento. L’illuminazione discreta e soffusa, emanata da faretti incassati nel soffitto e da piantane a stelo, conferiva alla stanza un’atmosfera di grande calore e intimità. Da questi ed altri particolari mi resi conto che il buon gusto che l’aveva sempre contraddistinta, si era arricchito di una certa dovizia di mezzi. Ne fui felice e in cuor mio mi compiacqui con lei. Ero contento che avesse trovato la sua giusta strada e fosse diventata una donna di classe. Tanta bellezza sarebbe stato un vero peccato sprecarla nella mediocrità. Il bello deve essere sempre valorizzato, perché la sua magia deve essere per tutti un dono, da godersi almeno di riflesso. Ci togliemmo i soprabiti e lei, liberata del suo invernale indumento, per la prima volta dopo tanti anni, mi riapparve con il suo corpo statuario, con tutte le anse e le prominenze nei posti giusti. Era più bella di allora e dotata di fascino, qualità che si acquista solo con l’età. Antonietta avviò l’impianto stereo e mise un disco di Barry White. Sperai proprio che non si mettesse a cantare e fortunatamente così fu. Pensando che il grande Barry si vantava di essere il cantante più ascoltato in camera da letto mi venne da sorridere. Chissà se Antonietta lo sapeva. Mi offrì da bere e mi versò del Glenlivet.
- Senza ghiaccio, no? - Si ricordava che a me il whisky piace liscio.
- Sì, senza ghiaccio, grazie! -
Lei si servì un Cointreau e si sedette nel divano vicino al mio. Sulle prime questo mi dette fastidio, in seguito invece ne fui contento, perché in questo modo potevo vederla meglio, osservarla con più attenzione, potevo, avendola avanti ai miei occhi, coglierne tutte le espressioni del volto e tutti gli atteggiamenti. Quella sera, lei era stata per me un avvenimento talmente inaspettato che al pari di quando si riceve un regalo si attende sempre un momento prima di scartarlo per prolungare l’effetto della sorpresa, così io mi comportai, senza prendere iniziative, lasciandomi trascinare dagli eventi, assaporando quell’istante che sapevo sarebbe stato il preludio di una magnifica notte. Mi parlò brevemente di lei, di come fosse cambiata la sua vita durante quegli ultimi anni. Lavorava come indossatrice per diversi rinomati stilisti. Ormai distaccata dalla sua famiglia viveva autonomamente. Sino a diciotto anni non aveva avuto una vita facile e felice, ma poi andarsene da casa per vivere con una sua amica introdotta nel giro della moda, aveva avuto fortuna e finalmente si sentiva realizzata e soddisfatta. Pur facendo ancora i primi passi, diceva di essere sulla buona strada e a giudicare da quel poco che vedevo mi sembrò essere la verità. Si erano fatte ormai le due di notte ed io cominciavo ad avvertire un poco di stanchezza. La mattina ero partito da Roma e avevo guidato sino a Milano dove avevo visto Silvia, la fiamma del momento, con la quale dopo un alterco che segnò definitivamente la fine della nostra relazione la sera stessa, dopo cena, avevo proseguito per Torino dove appena arrivato mi ero recato al Whisky Notte. Ero leggermente provato, la stanchezza stava arrivando, non c’era più tempo per le chiacchiere salottiere. Mi alzai dal mio divano e mi sedetti accanto a lei. Le accarezzai i cortissimi capelli neri e la baciai delicatamente sul collo, indugiando sulla nuca che sapevo essere una delle sue zone di maggior sensibilità. Lei accettava le mie tenerezze, alle quali era visibilmente sensibile e ricettiva, prova ne era il suo respiro che diventava sempre più corto e convulso. La baciai sulla bocca. La sentii fremere, stringersi a me e nell’abbraccio passai una mano sulle sue lunghe gambe e la insinuai sotto la gonna. Indossava un reggicalze. Delicatamente, con molta flemma, le sganciai le calze e gliele tolsi. Le sue cosce levigate e tornite accolsero le mie carezze dischiudendosi leggermente e permettermi di arrivare alle mutandine. Sentii che era bagnata. Continuai a toccarla e ad accarezzarla, fino a quando con il braccio che le avevo cinto in-torno alla schiena, la sollevai un poco dal divano e le sfilai gli slip. Il suo respiro si fece affannoso, totalmente presa dai sensi che in quel momento le chiedevano una sola cosa. Scesi dal divano e carponi mi misi davanti a lei. Le sollevai completamente la gonna e cominciai a baciarla sul ventre, scendendo lentamente verso il basso. Il sapore acidulo dei suoi effluvi mi eccitò a tal punto che non riuscii ad andare oltre e mi spogliai. Anche lei si tolse gli indumenti e rimanemmo completamente nudi. Seduta sul divano, immobile mi guardava, ma quella era una posizione scomoda per fare l'amore e allora la girai e la presi da dietro. La sua schiena tonica e snella si muoveva all’unisono con le mie bordate e mentre la possedevo la baciavo sulle spalle, sul collo, ovunque. Infine, in un crescendo di eccitazione, entrambi giungemmo al culmine, ma ancora preso dall'eccitazione continuai a muovermi, seppur più lentamente fino a fermarmi, ma quando volli distaccarmi da lei, una sua mano, posatasi sul mio corpo, me lo impedì.
Insieme sotto la doccia, m’insaponò tutto come fossi stato un bambino e maliziosamente le sue mani mi lavarono più del necessario. Anch’io feci altrettanto. Mi piaceva accarezzare, toccare quel corpo che ancora sussultava al mio tocco. La stanza, illuminata solamente dalle luci di Piazza Solferino, era inondata da uno strano chiarore increspato qua e là da piccoli riflessi e dalle volute azzurrine del fumo delle nostre sigarette. Intorno a noi c’erano solo pace e tranquillità. Tranquilli erano i nostri sensi ormai appagati e la pace che ne derivava era surreale. Mi sembrava come di galleggiare sopra una nuvola. Non sentivo più il mio corpo. Ero in un totale stato di aponderalità e la presenza di quella bella donna mi dava uno straordinario senso di beatitudine. La sapevo, senza incertezza, mia. Tutti gli anni trascorsi senza vederci non avevano incrinato il nostro magnetismo animale. Io ero stato il suo vero primo uomo e lei era stata la mia prima bellissima donna e, nonostante il tempo, questi primati resistevano ancora. Distesi a letto in quella pace contemplativa, Antonietta si ricordò di quanto mi piacesse farmi grattare la schiena e mi chiese di girarmi e mettermi a pancia sotto. Iniziò a passarmi delicatamente le unghie sulla pelle. Le sue mani, muovendosi dal collo e scendendo lentamente verso la zona lombare, delicatamente mi strofinavano l'epidermide, regalandomi innocenti sensazioni che apprezzavo con evidente piacere. Lo faceva con una dedizione da geisha, trasformando quella insignificante pratica in un’azione amorosa e sensuale. Senza smettere, si pose a gambe divaricate sopra la mia schiena e continuò a massaggiarmi con le unghie fino a quando eccitato mi girai, e lei sempre cavalcioni su di me, passandomi le sue maliziose unghiette sopra i capezzoli, muoveva al contempo il bacino sul mio basso ventre, fino a che non raggiunsi l’erezione e allora lei, sollevandosi un poco, infilò il mio membro dentro di sé. Questa volta fu lei a prendermi, imprimendo all’atto sessuale il suo ritmo, scegliendo le pause e le varianti. La vedevo torreggiare sopra di me con il seno che seguiva il saliscendi del suo corpo, mentre io assecondavo i suoi movimenti, tenendola salda con le mani che affondavano nelle sue rotonde natiche. Ogni tanto si abbassava per baciarmi e sentendo i suoi capezzoli duri sul mio ventre mi eccitavo sempre di più. Erano ormai le quattro del mattino e sebbene lei avesse avuto già più di un orgasmo, al contrario, io non riuscivo a concludere. Cambiai posizione e questa volta fui io a salire su di lei e la scopai con tanta forza, in tutti i modi che mi venivano in mente e così violentemente che urlava di piacere e intanto affondava, questa volta senza alcuna delicatezza, le unghie nella mia carne. Quando finimmo il letto era bagnato, nell’eccitazione si era lasciata sfuggire un po' di pipì. Con un sorriso ambiguo e malizioso, cambiò le lenzuola.
VENEZIA
Sono stato a Venezia e sempre di corsa, per una visita ad amici o una cena all’Harry’s bar. Dei suoi tanti musei, Palazzo Grassi è l’unico ove sia entrato per ammirare stupende opere di pittura moderna.
Venezia è stata sempre fuori dalle mie rotte di viaggio. Passando nelle vicinanze di Venezia raramente ho deviato per la laguna. Quando si viaggia si va di fretta, ma a Venezia la fretta è fuori luogo. Città fuori dal tempo, in quanto tale richiede un’attenzione particolare che mai ho potuto concederle.
A Cortina in un’estate di fine agosto, trovai inaspettatamente sola, Costanza, un’amica di scuola di mia sorella che non vedevo da diverso tempo. Pur recandosi assiduamente a Roma dove lei abitava, avevamo amicizie diverse e non ci s'incontrava mai. Ci conoscevamo da qualche anno e ritrovandoci in vacanza, iniziammo a frequentarci. Passammo insieme dei bei giorni. La casualità che già ci aveva teso la mano facendoci incontrare ci fu ancora favorevole. Le nostre vacanze finivano lo stesso giorno, l’ultimo sabato di agosto ed essendo lei senza macchina le offrii per il rientro un passaggio con la mia.
La sera prima della partenza andammo a dormire all’alba e l’indomani non riuscimmo a metterci in viaggio prima di mezzogiorno. Sino a Padova, in assenza dell’autostrada che fu realizzata in seguito, si era costretti a percorrere la via statale che si snodava attraverso tanti piccoli paesini, vicinissimi
l’uno all’altro. Si era costantemente costretti a rallentare, e se in aggiunta a questo si aveva la sfortuna di incappare in una coda si doveva aspettare a lungo prima di poter riacquistare velocità e riprendere il viaggio con scorrevolezza, e vuoi perché partimmo a mattino inoltrato vuoi perché c’era il rientro in massa dalle ferie, alle due eravamo ancora a Vittorio Veneto con il traffico che addirittura era cresciuto. L’ora avanzata e un certo appetito ci indussero a fermarci al primo ristorante che incontrammo. Ristorati dalla colazione, alle tre riprendemmo il viaggio. Il traffico si era per nulla diradato e sulla strada incontrammo più macchine che al mattino, tanto che alle cinque non eravamo ancora arrivati all’autostrada che doveva condurci a Roma, ma ormai eravamo giunti a Venezia e allora, perché non fermarci? Ci saremmo potuti concedere ancora un giorno insieme prima di reinserirci negli affanni del lavoro. Del resto, eravamo in vacanza e un giorno in più, una piccola dilazione, a chi avrebbe nociuto? L'indomani mattina, saremmo partiti presto. La tabella di marcia avrebbe segnato solamente una mezza giornata di ritardo. Costanza mi confessò di non esservi mai stata. Non avendo urgenti impegni si mostrò entusiasta di fermarsi e anche i miei appuntamenti non richiedevano sollecitudine. Entrammo a Venezia. A piazzale Roma, lasciata l'automobile in un garage, con lo stretto necessario per la notte salimmo su di un vaporetto colmo di turisti. In quella brevissima crociera, vedendo sfilare lungo le sponde del Canal Grande gli sfarzosi palazzi della città, la vista di quella magnificenza mi riempì il cuore di bellezza. Venezia scorreva davanti a me, facendomi vivere con gli occhi dell’immaginazione gli antichi fasti delle regate di cui avevo conoscenza attraverso le tele del Canaletto e del Guardi. Il fascino di quelle splendide architetture era tanto toccante da emozionarmi e Costanza, accanto a me, con i capelli scompigliati dalla brezza marina e lo stupore nei suoi begli occhi, rendeva ancora più appagante quel momento. La ricerca di un albergo, anche se a fine agosto, si annunciava impresa non tanto facile, ma io non cercavo un albergo qualunque. Alcuni anni addietro, ero stato ospite dell’Hotel Danieli, molto elegante, con una splendida vista sul mare. Ne conservavo un buon ricordo e desideravo tornarci. L’hotel, sulla riva degli Schiavoni, punto di approdo del vaporetto, non deluse le mie rimembranze e mi apparve bello come allora. La mia amica meritava un'adeguata cornice per la sua prima volta a Venezia e volevo farle questo regalo. Riuscii a trovare posto. L’albergo, in parte ristrutturato, aveva un’ala vecchia e una completamente ammodernata. Non mi sovviene in quale delle due prendemmo la stanza, ma ho bene impressa nella memoria la vista della Giudecca che, aprendo la finestra della camera, appariva splendente del biancore abbagliante dei marmi eburnei della Chiesa del Redentore. Il viaggio aveva fiaccato entrambi e la presenza di un enorme letto matrimoniale ci fece sentire ancor più stanchi. Senza toglierci gli abiti, ci lasciammo cadere sopra il letto per un breve e ritemprante riposo che alleggerì la spossatezza del viaggio. Una rinvigorente doccia allontanò definitivamente dai nostri corpi i residui della stanchezza, infondendo nuova energia per la serata che ci aspettava. Freschi nel corpo e negli abiti, uscimmo a fare i turisti, accompagnati dal lieve sciabordio dell’acqua che s’infrangeva sulle murate, lungo le calli. I muri scrostati, i vecchi portoni erosi dalla salsedine e dalla muffa, le finestre protette da inferriate arrugginite, destavano il mio interesse per i fantasmi che evocavano il loro passato. Quella decadenza raccontava storie di ricchezze favolose e di lussi scomparsi, riuscendo però a trattenerne tra le sue pietre l’eco che sommessa e flebile giungeva ai timpani della mia anima e in quel coacervo di beltà fatiscenti rifulgeva la fresca e rigogliosa attraenza della mia giovane compagna che, alla sua prima visita veneziana, si muoveva su quei lastricati con sguardo estasiato, catturata dalla novità dei luoghi e da rumori mai prima ascoltati. In una vetrinetta un ristorante esponeva frutti di mare e crostacei dall’aspetto molto invitante. Era presto per la cena, ma il programma della serata, prevedeva che non si facesse tardi e allora ci fermammo a mangiare un po’ di quelle squisitezze. Ci fu servito un magnifico piatto colmo di cicale di mare, cannolicchi, capesante, moleche, peoci, assiepati intorno ad un’enorme granseola che troneggiava al centro. Terminato quel delizioso pasto, passeggiammo per la città fino a che ci sentimmo stanchi, però prima di rientrare, ci fermammo da Quadri per un gelato. Seduti all’aperto, osservando le tante meraviglie di Venezia, ci trovammo a fantasticare sopra ad una nostra immaginaria casa nella città, lontana anni luce dal frastuono e dagli scarichi delle automobili ove rifugiarsi dai veleni del lavoro e rilassarsi in quella quiete irreale. Giocare con le parole e i sogni forse è infantile, ma chi trovandosi in un mondo completamente diverso dal proprio, non penserebbe, anche solo per un attimo, come potrebbe essere la sua vita lontano dal consueto, dalla quotidianità? Ancora una sigaretta e rientrammo in albergo. Erano appena le undici. L’indomani ci saremmo dovuti alzare di buonora e poi, Venezia è una città strana che, nonostante la sua fama di grande polo turistico, appena dopo cena diventa deserta. I caffè chiudono prima della mezzanotte e non resta altro da fare che andare a dormire. Uscendo dall’albergo, in camera avevamo lasciato la finestra aperta e il rientro ci offrì uno spettacolo indimenticabile.
Illuminata dalla luce della luna, adagiata su di un manto d’argento, galleggiava la Giudecca che i riflessi tremolanti sull’acqua e la foschia umida del caldo estivo facevano apparire come un dipinto di Monet. Un miraggio incantevole e onirico. In tali momenti, al cospetto di siffatti prodigi, si sente la necessità spirituale di goderne tutta la struggente bellezza insieme ad un amante, ad un figlio, con qualcuno cui ci si sente legati, quasi che la nostra anima, da sola, non sia capace di sostenere tanta meraviglia e la condivisione di quella gioia ci fa sentire ancor più felici. Avanti a quella finestra Costanza ed io ci sentimmo vicini e forse anche innamorati. Faceva caldo. L’aria era greve e umida, impregnata ancora della canicola del giorno e noi, alla finestra, stavamo fermi, abbracciati, in contemplazione della notte, ipnotizzati dai bagliori argentei delle increspature del mare, trasmettendoci, senza parlare, le sensazioni che provavamo attraverso il solo contatto della nostra pelle imperlata di umori. I nostri sguardi, quando s'incontravano, tornavano velocemente a disperdersi nella lontananza del mare e ad ogni occhiata che ci scambiavamo, sentivamo crescere in noi la sensazione di abbandono e di distacco dalla realtà che nella contemplazione di quella visione estatica ci appariva trasfigurata e intangibile, immateriale, fatta solo di luce, come frutto di un sogno. Ogni minuto che passava ci avvicinava di più e senza avvedersene ci ritrovammo assorti e immersi con lo sguardo perduto nell’orizzonte lontano, stretti in un abbraccio tenero e pulito che legava le nostre anime, le nostre spiritualità. Caspar David Friedrich ritrasse molte volte, nelle sue tele, questo particolare momento, e la funzione dell'elemento umano, immerso nella contemplazione, altro non è se non la quinta che separa la realtà dall’immaginario, il contingente dal trascendente, spartiacque tra i limiti della condizione umana e le illimitate possibilità dell’infinito che da quella finestra, l’incerta linea dell’orizzonte posta tra l’esigua grandezza del mare e l‘immensa vastità dello spazio ce lo ricordavano, facendoci sentire, piccoli, inermi, vulnerabili. Nell’uomo coabitano spirito e corpo ed entrambi esercitano con i loro richiami sensazioni e stimoli che, condizionando la nostra esistenza, producono in noi effetti tali da mettere in sintonia stati d’animo e pulsioni fisiche, determinando, nel volgere di un attimo, senza preavviso, comportamenti istintivi e irrefrenabili anche in momenti di elevata spiritualità, riportandoci alla primordiale natura animale, e così in quella pace contemplativa, nella quale, tutti i sentimenti e le sensazioni si sarebbero dovute sciogliere e amalgamare in un’immota atarassia, sentivo che non solo l’anima, ma anche i sensi chiedevano il loro tributo. Sentii nascere in me il desiderio prepotente di baciare Costanza e stringendole dolcemente il viso tra le mani, indirizzai la sua bocca verso la mia. Le sue labbra si schiusero e le nostre bocche s’incontrarono in un lungo, appassionato bacio. Costanza, già bella, con quella luce mi appariva bellissima, attraente, carica di sensualità ferina. I suoi occhi che brillavano al chiarore della luna, erano ardenti e carichi di soavissima lussuria. Cos’è la sensualità, se non l’eccitazione simultanea di tutti i sensi? E a vederla tanto desiderabile e pronta all’amore fisico, brividi di lubricità mi percorrevano la schiena e avvertivo crescere in me l’euforia sessuale. Il tono ansimante della sua voce rotta dal desiderio mi conquistava e posando le labbra sul suo collo, assaporavo il sapore dolciastro della sua pelle. Infine…il profumo, la sua fragranza di donna, la sua lieve traspirazione cutanea mi scatenavano istintive voglie. Ogni mio senso partecipava all’amplesso, ogni terminazione nervosa del mio corpo era sollecitata. Tutto il mio essere era immerso nel trascinante magma della voluttà. Costanza indossava una camicetta di lino ormai tutta sgualcita. L’apersi e subito ne balzarono fuori i seni piccoli e rotondi con i capezzoli rigidi che guardavano in alto. Cominciai a baciarli, prima delicatamente poi sempre più forte fino quasi a morderli. Con le mani carezzai la sua bella schiena liscia, morbida, sinuosa e madida di sudore, mentre lei, tra lamenti di piacere, con mani veloci sbottonò la mia camicia, ricambiando alla stessa maniera le mie effusioni e togliendoci vicendevolmente gli indumenti restammo completamente nudi.
Seguitammo a baciarci e ad accarezzarci su tutto il corpo, in piedi, davanti alla finestra, sino a che, non bastandoci più le carezze, l’adagiai sul letto e affondai la testa sul suo grembo. Respirava faticosamente, gemeva di desiderio. Da ultimo, quando la mia voglia di coglierla divenne incontenibile la presi e lei mi strinse a sé con forza, serrando le sue gambe intorno alla mia schiena e sempre di più strinse sino a che, divenendo i nostri respiri corti e trafelati, raggiunto insieme l’apice dell’eccitazione sessuale ci acquietammo, rimanendo allacciati ancora per lungo tempo. Intanto dal mare, la Giudecca ci guardava e chissà quante altre volte sarà stata testimone muta e solenne di siffatte effusioni d’amore, quanti saranno stati gli attimi di gioia e di dolore che ha condiviso con coloro che si beano della sua centenaria maestà. Venezia può essere triste o allegra, divertente o noiosa come ogni altra città. Le sensazioni che si provano e si vivono, quando ci si trova in un luogo, quasi mai dipendono totalmente dall’andito stesso, perché potenzialmente ogni posto ha in sé tutte le emotività.
Ogni angolo del mondo può darci tristezza o gioia, perché entrambe sono in noi e l’ambiente circostante contribuisce solamente a magnificare il nostro stato d’animo, però Venezia è particolare, la sua struttura, il suo equilibrio precario, il suo incessante morire, il suo perenne senso di disfacimento, ingenerano nell’animo dei visitatori il senso della morte, del decadimento e producono nel cuore di chi la osserva sentimenti di caducità e di languore spirituale. Le musiche barocche di Tartini, Albinoni, Marcello, Vivaldi ne sono la più alta testimonianza. Quando si ascolta la musica di questi eccelsi compositori, Venezia è avanti a noi, densa di melanconia con la sua perenne decadenza e la sua struggente bellezza di morte.
MARA
Girava per casa sempre svestita, indossando cortissime vestaglie di seta che non riuscivano a contenere le sue nudità. Quegli straccetti serici, fermati appena da un sottile cordoncino, finivano sempre con l’aprirsi ed erano talmente corti che bastava un piccolo movimento perché apparisse il suo bel sederino o un seno facesse capolino sul davanti. Aveva un carattere aperto, non sapeva cosa fosse la timidezza. Affetta da un’idiosincrasia per i vestiti, sembrava sempre non vedere l’ora di toglierseli.
Al mare, quando si usciva in barca, il suo unico costume era quello adamitico, a dispetto dei suoi imbarazzati compagni occasionali. Il suo corpo bellissimo ormai non induceva più in me alcuna tentazione, tanto era consuetudine vederla nuda. Avevo fatto l’abitudine a quelle forme che, sebbene fossero di donna matura, conservavano la freschezza e la fragranza di una ventenne. Le sue forme anatomiche le conoscevo in ogni particolare e per quanto stupende fossero non mi davano più sussulti. Una femmina agile, snella, alta oltre uno e settanta, dalle giuste proporzioni, con l’incarnato delicatamente rosato, un seno terza misura, un culetto alto, un lungo collo di cigno, un viso dall'ovale perfetto con gli zigomi appena pronunciati, naso sottile, bocca con denti candidi e due occhi blu contrastanti con il biondo acceso dei lunghi capelli cadenti sulle spalle, questa era Mara. Non bella, bellissima! Purtroppo eravamo amici e l'amicizia che ci legava mi inibiva, non lasciandomi vedere in lei la donna sensuale che era. Mai avrei voluto che tra noi germogliasse il seme della confidenza che porta inevitabilmente a soffocare gli appetiti sessuali, però accadde. La frequentazione assidua aveva modificato le nostre reciproche attenzioni sessuali. Non ero toccato dal desiderio di ghermirla, di prenderla, anche se nel subconscio sapevo di amarla e di desiderarla ardentemente. In aggiunta, le donne non mi mancavano e questo non concorreva a darmi verso lei lo stimolo di cui avevo bisogno.
Il miglior condimento si dice sia la fame, ma quando si è satolli, nessun cibo, anche se delizioso, stimola l’appetito. Le prime volte, quando ancora non la conoscevo e la vedevo scendere da qualche sontuosa macchina, mi colpivano di lei la sua bellezza, le sue movenze di donna procace e affascinante. La desideravo con tutto me stesso e spesso ho invidiato l’uomo che l'accompagnava.
Finalmente fummo presentati e cominciai a frequentarla, però mai da sola, sempre insieme ad altra gente. Con il tempo ci avvicinammo sempre di più e finii per guardarla nella maniera con cui si guarda un’amica. La nascente familiarità lentamente aveva annullato in noi ogni reticenza e produsse un affiatamento talmente forte, da indurla più di una volta a confidarmi le sue pene d’amore.
Viveva le sue relazioni con dedizione assoluta, capace di innamorarsi incondizionatamente, con tutto il suo animo, tanto da spegnere la propria dirompente personalità. Una donna facile all’innamoramento, assetata d’affetto, ma purtroppo costantemente attratta dalle persone sbagliate.
Abitava a Torino, ma la vedevo molto spesso a Roma dove si fermava qualche giorno, sempre mia ospite, per curare le pubbliche relazioni di una nota casa di moda. La sua vicinanza era per me un grande piacere e mi offriva l’opportunità di conoscere molte delle sue amiche, con alcune delle quali ho avuto anche piacevoli relazioni. Una sera a Roma rincasai per una doccia e cambiarmi d’abito. Dovevo uscire a cena con una ragazza. Mara era a casa. La trovai depressa e lei niente faceva per nascondere il suo stato d’animo. Il giorno precedente si era lasciata con l’uomo del momento e stava consolandosi alla sua maniera, ingurgitando pasticche di Tavor e whisky. Era in uno stato terribile. Mi preoccupava lasciarla sola in quelle condizioni e le chiesi se avesse gradito che restassi con lei, a tenerle compagnia, ma lei non volle. Disse di avere solo bevuto un po’ di troppo e non mi sarei dovuto assolutamente preoccupare. Desiderava starsene tranquilla in casa, davanti al televisore. La voce chiara e ferma con cui rispose mi tranquillizzò subito. Non sembrava per niente turbata, contrariamente ai brutti pensieri che mi erano venuti in mente. Mi lasciai convincere. Mi aspettava Estela, una ragazza spagnola di nuova conoscenza ed uscii. Trascorsi una serata insignificante. Estela era graziosa e carina, purtroppo però insipida e per nulla intrigante non riuscì a piacermi, nemmeno dopo aver bevuto un po’. Mi limitai quindi a fare il galante, flirtando quel poco che bastasse per non apparire disinteressato alle sue grazie, senza produrmi in atteggiamenti di seduzione. Verso l’una la ricondussi a casa. Sapevo che divideva l’appartamento con un’altra ragazza e questo mi evitò di doverle fare delle avance. Ero alticcio e annoiato. L’indifferenza che mi aveva colpito nei riguardi di Estela, mi aveva reso malinconico. Appena arrivai a casa, prima di andare a dormire, volli bere ancora un bicchiere. Accesi le luci basse del salotto, mi versai una buona dose di whisky e mi adagiai su una comoda poltrona ad ascoltare il caro, vecchio Sinatra. Tra un sorso e l’altro, ripensando alla mia avventura scialba e piatta, realizzai quanto fosse tardi e andai in camera.
Nel mio letto trovai Mara che, sentendomi entrare, si era svegliata. Si scusò per l’intrusione, giustificandosi di essere venuta nella mia stanza per guardare la televisione (in casa c’era un solo televisore) e di essere stata colta dal sonno. Non le badai molto. Entrai in bagno per prepararmi per la notte, lasciando la porta socchiusa e lei dal letto mi chiedeva come fosse andata la mia serata con Estela. Quando uscii stava fumando una sigaretta. Ne accesi una anch’io e mi sedetti sulla poltrona da camera, ai piedi del letto, aspettando che se ne andasse, ma inutilmente e allora, nonostante la sua presenza, mi misi sotto le lenzuola, pensando che lei avrebbe compreso il mio desiderio di dormire e se ne tornasse in camera sua. Anche questo però servì a poco e sebbene fosse del tutto svestita, la mia indifferenza verso la sua femminilità fu quella di sempre, come se stare a letto insieme, nudi, alle tre del mattino, fosse la cosa più naturale di questo mondo.
Dotata di intelligenza arguta e brillante, Mara era vivace e divertente, purtroppo però quando aveva le sue crisi depressive, regolarmente mi rifilava i suoi problemi di cuore diventando insopportabilmente tediosa. Quella notte non fece eccezione e quasi fossi il suo confessore o padre spirituale mi propinò le sue pene amorose e i suoi affanni sentimentali. Pensai che l’elemento scatenante di quei momenti di depressione cui andava spesso soggetta, derivasse dall'uso esagerato che faceva di sonniferi ingurgitati con abbondanti dosi di whisky, perché quel comportamento era totalmente in conflitto con il suo naturale modo di essere, spregiudicato e disinibito, purtroppo quando era stonata sembrava un’altra persona. Mi rassegnai ad ascoltarla, sperando che terminasse in fretta la sua odissea sentimentale della circostanza, ma sapendo in cuor mio che la cosa non si sarebbe esaurita in pochi minuti rinunciai a dormire e mi disposi con lo stato d’animo più adatto possibile ad assecondare la sua smania depressiva, lasciandomi passivamente andare alle sue elucubrazioni e spensi la luce, tanto, tenerla accesa non era servito a niente. Smise di parlare alle cinque del mattino, quando il flebile chiarore dell’alba stava insinuandosi nel buio della stanza. La sua sagoma era appena distinguibile e nel silenzio di quella penombra, accadde in me qualcosa di inspiegabile. Mi sentii invaso da un’improvvisa esuberanza.
L’idea di avere nel letto una bellissima donna che non vedevo, che non sentivo parlare, che allungando una mano avrei potuto toccare, mi mise in agitazione e sentii crescere in me un’eccitazione sessuale fortissima. Avviai nella mente, uno strano gioco. Non pensai più a Mara, ma ad una sconosciuta che, per qualche impensata ragione, era tutta nuda accanto a me e proprio in quel momento si alzò. La vidi passare davanti al letto e aprire la porta del bagno da dove una luce, appena un poco più forte di quella che era nella camera, mise in evidenza la sua bella silhouette alta e slanciata. L’euforia salì ancor più e non pensai ad altro che a prenderla e ad avere quel corpo. Lo volevo fortemente e soprattutto lo voleva la mia testa, i cui pensieri erano tutti per lei e con impazienza aspettai che uscisse dal bagno per tornare da me. La sconosciuta mi aveva sciolto ogni freno inibitorio. La porta si aprì e lei riapparve davanti al mio letto. E’ incredibile quanto sia veloce il pensiero umano e quante operazioni possa compiere in una frazione di secondo il nostro cervello, impareggiabile computer, dotato di una memoria RAM ineguagliabile. Innumerevoli sono le situazioni che si possono immaginare nella nostra testa, nel volgere di un attimo, e il cervello, con i suoi tanti settori impegnati in molteplici attività di pensiero, unisce tutti i processi logici complementari in un unico concetto nel medesimo istante. In quel brevissimo lasso di tempo, feci non so quante considerazioni, ma soprattutto mi chiesi: - Dove andrà? Tornerà da me? Se ne andrà? -
Uscendo dal bagno la bella sconosciuta entrò nel letto e il profumo del suo corpo accrebbe il mio estro, tanto da non potermi più trattenere e le accarezzai delicatamente un seno. Lei sembrò non avere alcuna reazione, ma poco dopo posò una mano su una mia gamba. Sentivo sulla pelle il tocco leggero delle sue dita che si muovevano lentamente in cerchio, come non sapessero quale direzione prendere.
La lasciai fare, aspettando che rispondesse al mio invito e finalmente cominciò a giocare con il mio sesso. Mi girai verso di lei e premendo la mia bocca contro la sua, violai le sue labbra con un bacio. I nostri corpi si avvicinarono e scivolarono su se stessi, mentre le bocche cercavano le nostre parti intime e quando le mie labbra trovarono il suo ciuffetto biondo, lei cominciò a gemere e stringendo tra le sue mani il mio capo, lo premette forte sul pube, perché non smettessi. Baciandola sul perineo, esplorando con la lingua ogni sua cavità, titillai lungamente il minuscolo prepuzio che affiorava tra le labbra del suo sesso. Il respiro le divenne ancora più affannoso e i suoi gemiti si trasformarono in lamenti. Infine, esplodendo in un grido liberatorio, strinse così forte le cosce contro la mia testa che fui costretto a fermarmi e nello stesso istante, la sentii rilassarsi completamente ed abbandonarsi su un fianco. L’abbracciai. A contatto della sua pelle fresca ed umettata di sudore la presi, dapprima dolcemente e poi sempre più impetuosamente muovendomi con colpi ritmati e decisi, sussurrandole da ultimo: - Mara, quanto ti ho desiderato! -
- Anch’io ti ho sempre voluto, ma perché hai aspettato tanto tempo? -
TANJA
Quella domenica quando mi svegliai, era già mezzogiorno passato. La sera precedente avevo fumato l’ultimo Montecristo. Mi ero proposto di acquistarne degli altri l’indomani da certi mercanti russi a Porta Portese, ma considerata l’ora ormai tarda rimasi al letto sonnolente a godermi il risveglio. Il chiarore della luce mattutina, che dalle imposte socchiuse entrava nella stanza, annunciava una magnifica giornata. Quando fui completamente desto, Bettina, la domestica, mi portò un caffè e il giornale. Dopo aver indugiato ancora qualche minuto sotto le lenzuola, m’infilai una vestaglia e andai a vedere se i fiori avessero bisogno d’acqua. L’idea dei fiori era stata dell'architetto che aveva progettato l’appartamento, mettendo ovunque macchie di verde e piante di ogni tipo. Con il tempo, le piante all’interno, nonostante le cure di Bettina che però ahimè non era una grande floricoltrice, morirono, mentre fuori, sulla terrazza che circondava la casa, alcuni vasi di ortensie resistevano all’incuria e alle intemperie. Forse perché uniche sopravvissute, a quelle piante mi ero affezionato e a modo mio cercavo di curarle, purtroppo però anche se vissero un anno di più rispetto alle altre, anch’esse se ne andarono, secche e rovinate dai parassiti. Pazienza. Sic transit gloria mundi! Sulla terrazza, il sole riscaldava senza bruciare, facendo sentire sul viso i suoi tiepidi raggi, infondendo nell’animo quella gioia che viene dal contatto diretto con la natura. La primavera stava finendo e timidamente arrivava l'estate. C’era nell’aria un calore gradevole che invitava ad uscire di casa e invogliava a starsene fuori, seduti all'aperto in uno dei tanti bar della città a leggere il giornale davanti a un aperitivo. Feci una doccia e mi vestii. Rammento ancora il mio abbigliamento, perché ad esso è legato il destino della giornata. Indossavo un abito di gabardine color nocciola chiaro, camicia bianca, fazzoletto bianco al taschino, una cravatta di seta morbida blu con dei quadratini color giallo scuro e mocassini di Fragiacomo, color becco d’oca. Sempre contrario alle scarpe di qualsiasi colore diverso dal nero, ad esclusione dello scamosciato, allora ero giovane e ogni tanto indulgevo ai dettami della moda. Si era fatto troppo tardi anche per l’aperitivo e mi era venuta una gran fame. La sera avanti avevo bisbocciato e il mio stomaco reclamava un abbondante pasto. Roma è piena di ristoranti, ma avevo voglia di una grossa bistecca alla fiorentina e allora optai per Pellegrino in via Sicilia. Vi si gustava un’ottima cucina toscana. I tavoli all'interno erano tutti occupati. Giulio, il maitre del ristorante, me ne procurò uno all’aperto nel dehor. Il tempo era splendido, si stava magnificamente. Aspettando la bistecca, sorseggiai un bicchiere di Chianti e detti una scorsa a Il Messaggero. Una ragazza bionda, longilinea, alta, ben vestita, all’apparenza straniera, se ne stava in piedi sull’uscio, nell'attesa che si liberasse un tavolo. Era sola. Domandai a Giulio se la conoscesse, se avesse potuto darmi qualche informazione su di lei. L’aveva vista altre volte. Non sapeva chi fosse, ma rispose che se avessi avuto piacere di averla al mio tavolo le avrebbe chiesto di sedersi con me. La proposta sembrò buona e Giulio si comportò di conseguenza. La ragazza, felice di accettare il mio invito, si sedette, tendendomi la mano per presentarsi. Si chiamava Tanja. Dopo avermi ringraziato per il cortese gesto, tenne a precisare che era felicissima di essere mia ospite, ma solo per il tavolo, non per il pranzo, altrimenti non avrebbe potuto accettare. Con fare distratto, le risposi di non pensare a quello e le versai del vino. Disse di venire spesso da Pellegrino e di avermi notato. Da parte mia le confessai di vederla per la prima volta e mi scusai di trovare imperdonabile il non essermi accorto di una così bella donna. Il complimento le piacque e un sorriso ad occhi bassi le illuminò il volto. Era sensibile alle galanterie e avvertii, nei suoi tratti comportamentali, un evidente interesse nei miei confronti. Di ottimo umore, spontanea nei modi e spigliata nella conversazione, aveva un carattere allegro e gioviale. La giornata stava avviandosi bene. Il pomeriggio era ancora tutto avanti a noi. Fu lei ad avviare la conversazione, chiedendomi chi fossi, cosa facessi, se vivessi a Roma e via dicendo, inanellando una serie di domande, le solite che due estranei si rivolgono quando s’incontrano per la prima volta. Nata e cresciuta a Mosca, era in Italia da qualche anno. Viveva con una sua amica in un appartamento in Via Sicilia, vicino al ristorante. Quando il pranzo terminò, nonostante le sue rimostranze, fui io naturalmente a pagare il conto e per ringraziamento ricevetti un casto bacio su una guancia, insieme a un sorriso intriso di stuzzicanti promesse. All’uscita dal ristorante, andammo da Doney, in Via Veneto. Seduti ad un tavolo, Tanja con un gesto brusco, stavamo bevendo un caffè, fece rovesciare una tazzina che riversò il suo contenuto sul mio vestito, imbrattandolo su di una gamba con una grossa macchia scura. Ci restò malissimo. La vidi sbiancare e irrigidirsi per la vergogna. Era mortificata. Balbettava parole di scusa per l’accaduto e sebbene io la rincuorassi, dicendole che il vestito, portato in lavanderia, sarebbe tornato come prima, lei sembrava non darsi pace.
Niente mancò che si mettesse a piangere. Era visibilmente provata dall’incidente e continuava a ripetere: - Che stupida sono stata, quanto mi dispiace. -
Mi faceva tenerezza, perché capivo quanto dovesse sentirsi in colpa, soprattutto dispiaciuta di avermi guastato la giornata, perché mi sarei dovuto cambiar d’abito. Cercai di rassicurarla anche su questo, facendole presente che non abitavo troppo distante da Via Veneto e l'episodio non avrebbe compromesso i miei programmi pomeridiani. Le chiesi se avesse degli impegni. Non ne aveva e la invitai a passare il pomeriggio con me, non appena mi fossi reso presentabile. A questo punto si presentò un altro piccolo inconveniente. La mia macchina, una Jaguar XJ6, non voleva mettersi in moto. Provai e riprovai, fino a scaricare la batteria, ma non ci fu verso di farla partire. Tanja mi disse di avere una Mini Morris, parcheggiata proprio lì vicino e mi ci condusse a casa. L’incidente aveva acceso in lei un senso di colpa che la induceva a scusarsi in continuazione, facendola parlare ininterrottamente, passando da un argomento all’altro, arrivando, in questo suo particolare flusso di coscienza, a darmi anche una giustificazione dell’essere sola al ristorante. Da pochi giorni, si era lasciata con il suo uomo, un avvocato, sposato, che provvedeva in tutto e per tutto ai suoi bisogni. Per questa sua dichiarazione, l’apprezzai ancora di più, per il coraggio di essersi messa a nudo senza falsi pudori, contrariamente a tante altre ragazze che, trovandosi nel medesimo stato, lo mascherano con patetiche bugie. Rivelata spontaneamente la sua condizione, denunciando una elastica disinvoltura nei rapporti con gli uomini, mi dichiarava la sua disponibilità. Arrivati a casa, appena entrati mi fece dei complimenti per l’appartamento spazioso e ben arredato. La feci accomodare su di una poltrona. Le offrii da bere, misi della musica e tornò ad essere simpatica e allegra. La tristezza sembrava esserle scomparsa, anzi presa dalla casa ne visitò ogni stanza, osservando tutto con interesse. Terminata la visita, ci sedemmo su un divano. Volli essere carino e l'avvicinai un poco a me. Le passai le mani tra i capelli, le detti qualche tenero bacio. Il caffè, filtrato attraverso la stoffa, stava impregnando appiccicosamente anche le mie gambe. Mi dovevo lavare e allora entrai in bagno e aprii l’acqua nella vasca. Aspettando che si riempisse, tornai da lei e creatasi una situazione che stava viaggiando verso un felice epilogo, iniziammo ad amoreggiare.
L’acqua ormai cadeva nella vasca già da un po’ di tempo e scusandomi la lasciai in salotto per entrare in bagno, tirandomi dietro la porta, senza chiuderla a chiave. Trascorso qualche minuto, mentre ero immerso nell’acqua, occupato nelle mie abluzioni, la porta si aprì lievemente e attraverso un sottile spiraglio intravidi il celeste dei suoi occhi che mi stavano osservando. Feci finta di nulla e lei continuò a guardarmi. Quel gioco durò qualche secondo, poi Tanja aprì la porta e in tutta naturalezza, fumando una sigaretta con un bicchiere in mano, si sedette sul bordo della vasca, mentre io continuavo la mia toilette. Guardandoci con insistenza, senza mascherare le nostre intenzioni che trapelavano dai nostri sguardi, le chiesi di spogliarsi. Solo allora notai quanto Tanja fosse desiderabile. Alta, con il corpo snello dalle giuste proporzioni, aveva gambe lunghe dalla caviglia sottile come un cavallo di razza. La sua pelle liscia e levigata era bianchissima, tanto da assumere una consistenza diafana. I capelli, biondi di tonalità chiara, avevano una brillantezza smagliante e, colpiti dalla luce, emettevano riflessi color oro. Gli occhi grandi e celesti, tagliati delicatamente a mandorla, donavano al suo viso un’espressione morbida e dolce, ma la parte più bella del suo corpo erano le spalle che al ristorante non avevo notato, perché indossava una giacca. Un top metteva in risalto il suo seno prosperoso e le lasciava completamente nude le spalle larghe e ben tornite con le scapole appena pronunciate. Una schiena, degna di una bagnante di Renoir, che terminava in un girovita sottile, da cui si dipartivano le rotondità dei fianchi. Bella e desiderabile mi incantò. Non avevo mai avuto una ragazza russa. Dapprima si tolse il top, lasciando a nudo il seno florido e ben modellato, poi venne la volta della sottana e delle calze. Un piccolissimo perizoma che le copriva appena il pube esaltava due splendidi glutei separati da una conturbante, sottilissima striscia di tessuto che andava a morire in una stupenda insenatura. Con quell’evanescente slip, nella sua incantevole nudità, in piedi di fronte a me, la guardavo rapito. I nostri sguardi si fecero più seri e intensi. Aspettai che finisse di fumare la sua sigaretta ed uscii dalla vasca. Per mano, la condussi sotto la doccia dove ci bagnammo insieme. Con i capelli bagnati, aderenti alla testa, era ancora più bella, più sensuale e l’oro delle sue chiome bagnate, diventato più intenso, brillava sul candore della pelle. Ambedue elettrizzati, coperti da lunghe spugne da bagno ci sedemmo sopra un divano, ma Tanja si levò in piedi e, lasciando scivolare sul suo corpo il telo che la copriva, strappò via la mia spugna, denudando anche me. La condussi in camera da letto.
L’attesa aveva trasformato il nostro desiderio in una incontinente voglia di possesso, difficile da descrivere, senza svilirne la bellezza con la razionalità di un racconto. Il resto della giornata se ne andò tra l’amore e la musica. Piluccando qualcosa che era nel frigo, evitammo di uscire per la cena. La domenica, quell’incredibile domenica, era finita e verso la mezzanotte, con la sua Mini se ne tornò a casa sua. Ci siamo visti altre volte, ma non è stato più come quel primo pomeriggio. Tempo dopo, rincontrandoci al Pantheon, i nostri ricordi sono subito corsi all’indietro, a quelle macchie di caffè.