Amore a Venezia
- Belisario Righi
- 17 ott 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 11 mar
Dal libro DONNE
DI BELISARIO RIGHI

Venezia - La Giudecca
Sono stato a Venezia non più di quattro o cinque volte e sempre di corsa, per una visita a qualche amico, una cena all’Harry’s bar o una puntata al casinò.
Dei suoi tanti musei, Palazzo Grassi è l’unico nel quale sia entrato per ammirare una stupenda mostra di pittura moderna.
Venezia è stata sempre fuori dalle mie rotte di viaggio.
Nel Veneto, escludendo Cortina d’Ampezzo, sono andato poche volte.
Passando nelle vicinanze di Venezia, raramente ho deviato per la laguna, e sempre per una breve visita.
Quando si viaggia si va di fretta, ma a Venezia la fretta è fuori luogo.
Città fuori dal tempo, in quanto tale richiede un’attenzione particolare che mai ho potuto concederle.
A Cortina in un’estate di fine agosto, trovai inaspettatamente sola, Costanza, un’amica di scuola di mia sorella che non vedevo da diverso tempo. Pur recandomi assiduamente a Roma dove lei abitava, avevamo amicizie diverse e non ci s'incontrava mai.
Ci conoscevamo da qualche anno e ritrovandoci in vacanza, iniziammo a frequentarci.
Passammo insieme dei bei giorni.
La casualità che già ci aveva teso la mano facendoci incontrare ci fu ancora favorevole.
Le nostre vacanze finivano lo stesso giorno, l’ultimo sabato di agosto, ed essendo lei senza macchina le offrii per il rientro un passaggio sulla mia.
La sera prima della partenza andammo a dormire all’alba e l’indomani non riuscimmo a metterci in viaggio prima di mezzogiorno.
Sino a Padova, in assenza dell’autostrada che fu realizzata in seguito, si doveva percorrere la via statale che si snodava attraverso tanti piccoli paesini, vicinissimi l’uno all’altro.
Si era costantemente costretti a rallentare, e se in aggiunta a questo si aveva la sfortuna di incappare in una coda si doveva aspettare a lungo prima di poter riacquistare velocità e riprendere il viaggio con scorrevolezza, e vuoi perché partimmo a mattino inoltrato, vuoi perché c’era il rientro in massa dalle ferie, alle due eravamo ancora a Vittorio Veneto, dove il traffico sembrava addirittura essere cresciuto.
L’ora avanzata e un certo appetito, ci indussero a fermarci al primo ristorante che incontrammo.
Ristorati dalla colazione, alle tre riprendemmo il viaggio.
Il traffico si era per nulla diradato e sulla strada incontrammo più macchine che al mattino, tanto che alle cinque non eravamo ancora arrivati all’autostrada che doveva condurci a Roma, ma ormai eravamo giunti a Venezia e allora perché non fermarci?
Ci saremmo potuti concedere ancora un giorno insieme, prima di reinserirci negli affanni del lavoro. Del resto, eravamo in vacanza e un giorno in più, una piccola dilazione, a chi avrebbe nociuto?
L’indomani mattina saremmo partiti presto. La tabella di marcia avrebbe segnato solamente una mezza giornata di ritardo.
Costanza mi confessò di non esservi mai stata e non avendo urgenti impegni si mostrò entusiasta di fermarsi.
Dal mio canto, io non avevo alcun cartellino da timbrare.
Entrammo a Venezia.
A piazzale Roma, lasciata l’automobile in un garage, con lo stretto necessario per la notte, salimmo su un vaporetto colmo di turisti.
Durante quella brevissima crociera, vedendo sfilare lungo le sponde del Canal Grande gli sfarzosi palazzi della città, la vista di quella magnificenza mi riempì il cuore di bellezza.
Venezia scorreva davanti a me, facendomi vivere con gli occhi dell’immaginazione gli antichi fasti delle regate di cui avevo conoscenza attraverso le tele del Canaletto e del Guardi.
Il fascino di quelle splendide fabbriche architettoniche era così toccante da rendermi emozionato e la vicinanza di Costanza, con i capelli scompigliati dalla brezza marina e lo stupore nei suoi begli occhi, rendeva ancora più appagante quel momento.
La ricerca di un albergo, anche se a fine agosto, si annunciava impresa non tanto facile, ma io non cercavo un albergo qualunque. Alcuni anni addietro ero stato ospite dell’hotel Danieli, molto elegante, con una splendida vista sul mare.
Ne conservavo un buon ricordo e desideravo tornarci.
L’hotel sulla riva degli Schiavoni, punto di approdo del vaporetto, non deluse le mie rimembranze e mi apparve bello come allora.
La mia compagna meritava un’adeguata cornice per la sua prima volta a Venezia e volevo farle questo regalo.
Riuscii a trovare posto.
L’albergo in parte ristrutturato, aveva un’ala vecchia e una completamente ammodernata.
Non mi sovviene in quale delle due prendemmo la stanza, ma ho bene impressa nella memoria la vista della Giudecca che, aprendo la finestra della camera, appariva splendente del biancore abbagliante dei marmi eburnei della Chiesa del Redentore.
Il viaggio aveva fiaccato entrambi e la presenza di un enorme letto matrimoniale ci fece sentire ancor più stanchi.
Senza toglierci gli abiti ci lasciammo cadere sopra il letto per un breve e ritemprante riposo che alleggerì la spossatezza del viaggio. Una rinvigorante doccia allontanò definitivamente dai nostri corpi i residui della stanchezza, infondendovi nuova energia per la serata che ci aspettava.
Freschi nel corpo e negli abiti uscimmo a fare i turisti, accompagnati dal lieve sciabordio dell’acqua che s’infrangeva sulle murate, lungo le calli.
I muri scrostati, i vecchi portoni erosi dalla salsedine e dalla muffa, le finestre protette da inferriate arrugginite, destavano il mio interesse per i fantasmi che evocavano il loro passato.
Quella decadenza raccontava storie di ricchezze favolose e di lussi scomparsi, riuscendo però a trattenerne tra le sue pietre l’eco che sommessa e flebile giungeva ai timpani della mia anima, e in quel coacervo di beltà fatiscenti, rifulgeva la fresca e rigogliosa attraenza della mia giovane compagna che, alla sua prima visita veneziana, si muoveva su quegli acciottolati con sguardo estasiato, catturata dalla novità dei luoghi e da rumori mai ascoltati prima.
Un ristorante, in una vetrinetta, esponeva frutti di mare e crostacei dall’aspetto molto invitante.
Era presto per la cena, ma il programma della serata, prevedeva che non si facesse tardi e allora ci fermammo a mangiare un po’ di quelle squisitezze.
Ci fu servito un magnifico piatto colmo di cicale di mare, cannolicchi, capesante, moleche, peoci, assiepati intorno ad un’enorme granseola che troneggiava al centro.
Terminato quel delizioso pasto, passeggiammo per la città fino a sentirci stanchi, ma prima di rientrare ci fermammo da Quadri per un gelato.
Seduti all’aperto, osservando le meraviglie di Venezia, ci trovammo a fantasticare su una nostra immaginaria casa nella città, lontana anni luce dal frastuono e dagli scarichi delle automobili, dove rifugiarsi dai veleni del lavoro e rilassarsi in quella quiete irreale.
Giocare con le parole e i sogni, forse è infantile, ma chi trovandosi in un mondo completamente diverso dal proprio, non penserebbe, anche solo per un attimo, come potrebbe essere la sua vita lontano dal consueto, dalla quotidianità?
Ancora una sigaretta e rientrammo in albergo.
Erano appena le undici. L’indomani ci saremmo dovuti alzare di buonora e poi, Venezia è una città strana che, nonostante la sua fama di grande polo turistico, appena dopo cena diventa deserta. I caffè chiudono prima della mezzanotte e non resta altro da fare che andare a dormire.
Uscendo dall’albergo avevamo lasciato in camera la finestra aperta e il rientro ci offrì uno spettacolo indimenticabile.
Illuminata dalla luce della luna, adagiata su di un manto d’argento, galleggiava la Giudecca che i riflessi tremolanti sull’acqua e la foschia umida del caldo estivo facevano apparire come un dipinto di Monet.
Un miraggio incantevole e onirico.
In tali momenti, al cospetto di siffatti prodigi, si sente la necessità spirituale di goderne tutta la struggente bellezza insieme a un’amante, ad un figlio, insieme a qualcuno che si ama, cui ci si sente legati, quasi che la nostra anima, da sola, non sia capace di sostenere tanta meraviglia, e la condivisione di quella gioia ci fa sentire ancora più felici.
Davanti a quella finestra ci sentimmo molto vicini, felici e forse anche innamorati.
Faceva caldo.
L’aria era greve e umida, impregnata ancora della canicola del giorno e noi, avanti alla porta-finestra, stavamo fermi, abbracciati, in contemplazione della notte, ipnotizzati dai bagliori argentei delle increspature del mare, trasmettendoci, senza parlare, le sensazioni che provavamo, attraverso il solo contatto della nostra pelle imperlata di umori.
Gli sguardi, quando s'incontravano, tornavano velocemente a disperdersi nella lontananza del mare e ad ogni occhiata che ci scambiavamo sentivamo crescere in noi la sensazione di abbandono e di distacco dalla realtà che nella contemplazione di quella visione estatica ci appariva trasfigurata e intangibile, come frutto di un sogno, immateriale, fatta solo di luce.
Ogni minuto che passava ci avvicinava di più e senza avvedercene, ci ritrovammo assorti e immersi con lo sguardo nell’orizzonte lontano, stretti in un abbraccio tenero e pulito che legava le nostre anime, le nostre spiritualità.
Caspar David Friedrich ritrasse molte volte, nelle sue tele, questo particolare momento dove la funzione dell’elemento umano, immerso nella contemplazione, altro non è se non la quinta che separa la realtà dall’immaginario, il contingente dal trascendente, lo spartiacque tra il limite della condizione umana e le illimitate possibilità dell’infinito che, da quella finestra, l’incerta linea dell’orizzonte, posta tra l’esigua grandezza del mare e l‘immensa vastità dello spazio, ce lo ricordava facendoci sentire piccoli, inermi.
Nell’uomo coabitano spirito e corpo ed entrambi esercitano con i loro richiami sensazioni e stimoli che, condizionando la nostra esistenza, producono in noi effetti che mettono in sintonia stati d’animo e pulsioni fisiche, determinando, nel volgere di un attimo, senza preavviso, comportamenti istintivi e irrefrenabili anche in momenti di elevata spiritualità, riportandoci alla primordiale natura animale, e così in quella pace contemplativa, nella quale, tutti i sentimenti e le sensazioni si sarebbero dovuti sciogliere e amalgamare in un’immota atarassia, sentivo che non solo l’anima, ma anche i sensi chiedevano il loro tributo.
Avvertii nascere in me il desiderio prepotente di baciare Costanza e stringendole dolcemente il viso tra le mani, indirizzai la sua bocca verso la mia.
Le sue labbra si schiusero e le nostre bocche s’incontrarono in un lungo, appassionato bacio.
Costanza, già bella, con quella luce mi appariva bellissima, attraente, carica di sensualità ferina.
I suoi occhi, brillanti al chiarore della luna, erano ardenti e carichi di soavissima lussuria.
Cos’è la sensualità, se non l’eccitazione simultanea di tutti i sensi?
A vederla così desiderabile e pronta all’amore fisico, brividi di lubricità mi percorrevano la schiena, mentre cresceva in me l’euforia sessuale.
Sentendola parlare, il tono ansimante della sua voce mi conquistava e posandole le labbra sul collo, potevo gustare il sapore dolciastro della sua pelle.
Infine…il profumo, la sua fragranza di donna, la sua lieve traspirazione cutanea mi scatenavano istintive voglie.
Ogni mio senso partecipava all’amplesso, ogni terminazione nervosa del mio corpo era sollecitata.
Tutto il mio essere era immerso nel vischioso magma della voluttuosità.
Costanza indossava una camicetta di lino ormai tutta gualcita. La apersi e subito ne balzarono fuori due seni piccoli e rotondi con i capezzoli rigidi che guardavano in alto.
Cominciai a baciarli, prima delicatamente, poi sempre più forte fino quasi a morderli.
Con le mani carezzai la sua bella schiena liscia, morbida, sinuosa e madida di sudore, mentre lei, tra lamenti di piacere, con mani veloci sbottonò la mia camicia, ricam-biando alla stessa maniera le mie effusioni, e togliendoci vicendevolmente gli indumenti, restammo completamente nudi.
Seguitammo a baciarci e ad accarezzarci su tutto il corpo, in piedi, davanti alla finestra, sino a che, non bastandoci più le carezze, l’adagiai sul letto e affondai la testa sul suo grembo.
Respirava faticosamente, gemeva e si scioglieva in gridolini di piacere.
Da ultimo, quando la mia voglia di coglierla divenne incontenibile, la presi e lei mi strinse a sé con forza, serrando le sue gambe intorno alla mia schiena e strinse sempre di più sino a che, divenendo i nostri respiri corti e trafelati, raggiungemmo il culmine dell’eccitazione sessuale, insieme.
Ci acquietammo, rimanendo allacciati ancora per lungo tempo.
Intanto dal mare la Giudecca ci guardava e chissà quante altre volte sarà stata testimone muta e solenne di siffatte effusioni d’amore, quanti saranno stati gli attimi di gioia e di dolore condivisi con coloro che si beano della sua centenaria maestà.
Venezia può essere triste o allegra, divertente o noiosa come ogni altra città.
Le sensazioni che si provano e si vivono, quando ci si trova in un luogo, quasi mai dipendono dall’andito stesso perché potenzialmente ogni posto ha in sé tutte le emotività.
Ogni angolo del mondo può darci tristezza o gioia, perché entrambe sono in noi e l’ambiente circostante contribuisce solamente a magnificare il nostro stato d’animo, ma Venezia è particolare, la sua struttura, il suo equilibrio precario, il suo incessante morire, il suo perenne senso di disfacimento, ingenerano nell’animo dei visitatori il senso della morte, del decadimento e producono nel cuore di chi la osserva sentimenti di caducità e di languore spirituale.
Le musiche barocche di Tartini, Albinoni, Marcello, Vivaldi, sono la più alta testimonianza di questo.
Quando si ascolta la musica di questi compositori, Venezia è davanti a noi, densa di melanconia con la sua perenne decadenza e la sua struggente bellezza di morte.
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