Etica fotografica
- Belisario Righi
- 19 mar 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 11 mar
DI BELISARIO RIGHI
L'etica è l’insieme dei criteri che consentono all'individuo di gestire, entro precisi confini, su base razionale e non emotiva, la propria libertà nel rispetto degli altri. In questo significato ristretto, l’etica è sinonimo di filosofia morale, ovvero compendio dei valori morali che determinano il comportamento dell'uomo.
Il fondamento delle umane relazioni sociali è basato sul principio cristiano che recita: ama il prossimo tuo come te stesso, oppure, non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te e ancora, la tua libertà finisce dove comincia la mia.
Determinata la piattaforma di discussione, prima di tutto è doveroso porsi la seguente domanda: chi siamo Noi e chi sono gli Altri?
Bisogna cercare di comprendere quale relazione possa esistere tra noi stessi e il nostro prossimo, in maniera da delimitare la nostra sfera di libertà entro limiti che non vadano a ledere l’autonomia altrui.
La risposta è semplice. Non c’è relazione tra Noi e gli Altri, perché Noi e gli Altri siamo la stessa cosa. Siamo entità specularmente simili. Ci differenziamo solamente per il punto di vista dal quale ci osserviamo e così quando Noi (osservatori) guardiamo gli Altri(osservati), vediamo esattamente quello che gli Altri (ora osservatori) vedono in Noi (ora osservati).
E allora, se amiamo noi stessi, con la medesima intensità dobbiamo amare gli altri e non compiere atti negativi nei loro confronti.
In tutti i campi del sapere e delle sue applicazioni, non esclusa la fotografia, l’etica ha un suo ruolo. Essa nasce con le attività umane, è onnipresente, e tende a orientarne i comportamenti all’interno delle società, chiamando in causa quei sentimenti che generalmente si definiscono universali, come l’amore, l’amicizia, la fratellanza e altro. Quotidianamente però rileviamo l’uso indiscriminato dei media che sono funzionali più ai poteri commerciali che non a quei valori prima citati e se accettiamo la fotografia, come strumento efficace e pertinente di divulgazione dell’informazione, dobbiamo, nostro malgrado, accettarne, o meglio ancora subirne, la sua strumentalizzazione.
Da sempre si dibatte sul tema se sia giusto e nel caso lo sia, in quale misura si possa ritrarre fotograficamente una persona, senza compromettere la sua dignità individuale e soprattutto senza alterare, attraverso scatti ambigui, l’essenza spirituale del soggetto ritratto.
Il dibattito assume toni più espressivi e determinanti quando ci si riferisce a fotografie che ritraggono persone sofferenti o addirittura morte. In questi casi-limite l’osservanza di un rigoroso comportamento etico è essenziale e dovuta.
Nel suo libro La Chambre Claire, Roland Barthes considera la fotografia come la risultante di tre distinti elementi, rappresentanti le fondamenta dell’arte fotografica, che sono: l’operatore, lo spettatore, il soggetto ritratto, ma pone soprattutto l’accento sul secondo elemento, ovvero sullo spettatore che ha sostanzialmente due modi di leggere una fotografia: l’aspetto razionale e quello emotivo.
L’aspetto razionale consiste nel trovare nella fotografia le informazioni di carattere generale, quali la composizione, gli oggetti-soggetti rappresentati, mentre in quello emotivo l’osservatore è catturato da particolari dettagli della composizione che scatenano nel suo animo tempeste emozionali. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si determina il valore sociale ed etico dello scatto, perché la fotografia non può essere usata come fonte d’informazione che non ponga problemi, come asserisc John Tagg nel suo The burden of representation, essays on photographies and histories.
Nell’osservare una fotografia ci si deve chiedere come si è arrivati a quella rappresentazione, quali sono le cause che l’hanno determinata, perché la fotografia non comunica realtà preesistenti ed autodefinite. In sintesi, nella fotografia non si deve ricercare la mera testimonianza di ciò che mostra, bensì le motivazioni che l’hanno portata a esistere nel modo in cui ci viene proposta.
Therese Frare, una giovane studentessa di giornalismo, all’Università dell’Ohio, attivista per i diritti dei gay, scelse di fare un reportage fotografico sull’AIDS per il suo progetto accademico e ottenne il permesso di fotografare sul letto di morte, mentre abbracciato dal padre esalava l’ultimo respiro, David Kirby, attivista nella campagna di sensibilizzazione sull’AIDS, degente all’Ohio State University Hospital di Columbus, perché affetto da sindrome da HIV a livello terminale.
La foto in B/W di Therese Frare è deontologicamente corretta in quanto assume il ruolo preciso per il quale è stata scattata, assolvendo la funzione di interrogazione circa le motivazioni dell’accaduto, come John Tagg insegna. L’intenzione della Frare, infatti, fu quella di portare agli occhi del mondo e dei mass media il dilagante e incontrollato sconquasso sociale derivante dalla sindrome da HIV e la fotografia di Kirby morente ha svolto egregiamente il compito. Nelle intenzioni della fotografa lo scatto doveva avere la precisa finalità di scatenare, unitamente al senso della pietà, l’idea del pericolo, dell’immanenza della tragedia ed esorcizzare l’Aids dalle pastoie dell’immaginario collettivo, che creano paure, sensi di colpa e d'ineluttabilità, pregiudizi sostanzialmente che ostacolano la ricerca della vera genesi della sindrome, rallentandone inevitabilmente la corsa verso la soluzione del problema, concetto questo ampiamente esposto in AIDS and its metaphor di Susan Sontag.
Arthur Cravan, poeta dadaista, disse che ogni artista deve avere in sé il senso della provocazione e nel caso specifico Therese Frare è perfetta, impeccabile ed elegante e finalmente "attraverso la fotografia si esce dall’immaginario collettivo, per entrare in una realtà più compenetrante e calzante il vero problema, perché l’evento, essendo stato fotografato, è diventato reale e quindi notizia anche agli occhi di chi si trova altrove". (Susan Sontag in On Photography)
La macchina fotografica è un mezzo meccanico che offre grandi possibilità di espressione. Nelle moderne camere digitali, esistono programmi con impostazioni di default, progettate per riprese particolari, di cui, per l’accuratezza del risultato, quasi tutti i fotografi fanno uso, adottando le più idonee, secondo il caso. Ma la fotocamera è un occhio che guarda freddamente, senza emozioni, senza discernimenti, qualunque cosa le si pari davanti e se si dovrà riprendere lo scoppio di una bomba, con lo sfavillio di luci e le cortine di fumo che l’esplosione provocherà, poiché in nessuna macchina fotografica è prevista una simile possibilità, il fotografo userà l’impostazione fuochi d’artificio e così la scena drammatica dell’esplosione di una bomba, verrà ripresa come se si trattasse di un evento gioioso e folkloristico.
Il fotografo in questo caso non si pone il problema del mezzo tecnico, per celebrare l’evento e anche se la finalità è sovvertita rispetto alla tecnica usata, il risultato viene raggiunto. Tale inversione di intenti è frequente nel mondo della fotografia e spesso si usa uno scatto per trasmettere un messaggio assolutamente non implicito nell’immagine. E’ il caso tipico in cui, per deontologia professionale, ci si dovrebbe chiedere se ciò sia eticamente corretto.
Questa elementare domanda certamente non se l’è posta Oliviero Toscani, uomo di fotografia e di comunicazione di fama internazionale, che ha costruito la sua fortuna professionale realizzando campagne pubblicitarie per l’azienda di abbigliamento Benetton, con fotografie shock, denuncianti problemi sociali di varia natura, che per la loro crudezza imponevano di essere guardate, ma che in realtà avevano la sola funzione di catturare l’attenzione dell’osservatore, essendo inserite in contesti non pertinenti alle immagini, riguardanti bensì le campagne pubblicitarie della griffe United Colors of Benetton, secondo un brand management ben preciso, tecnica di manipolazione e di plagio, purtroppo spesse volte adottata dalla pubblicità, il cui fine è quello di irretire l’osservatore, al quale, una volta che lo si è costretto ad osservare, si mostrerà tutto ciò che si vuole.
David Kirby sul letto di morte fotografato da Therese Frare
La forza della fotografia è nella sua invasività, nel suo essere presente nelle più svariate situazioni, al punto di diventare essenziale nella configurazione della società moderna che ormai si avvale più delle immagini che delle parole. Fred Ritchin, in After photography esamina gli innumerevoli aspetti attraverso i quali l’immagine digitale è entrata prepotentemente nella nostra vita, potendo a nostro piacimento modificare ad hoc uno scatto, sì da renderlo complementare e di supporto ad una dissertazione, che originariamente nulla ha in sé dell’argomento trattato e quando nel 1992 Oliviero Toscani e Tibor Kalman, realizzatori di campagne pubblicitarie per la Benetton, adottarono la fotografia della morte di Kirby, la colorarono artificialmente, per la precisa occasione (United colors of Benetton), apponendovi il marchio verde aziendale e la usarono, in maniera trasversale, per scopi pubblicitari, contravvenendo alle basilari norme dell’etica, le quali, ancorché non scritte, tacitamente esigono che la morte di un uomo sia un fatto squisitamente privato e non debba essere sfruttata commercialmente, trasformandola in un sordido oggetto di lucro.
David Kirby sul letto di morte nella foto colorata e manipolata da Oliviero Toscani e Tibor Kalman
La sofferenza e più ancora la morte esigono rispetto e dignità, che vanno estese anche ai congiunti e a tutte le altre persone che vivono la crudezza del dramma che si sta consumando.
Non tenere in conto queste considerazioni, significa sminuire o addirittura irridere il dolore umano.
Nella fattispecie, la famiglia del malato dette il proprio assenso alla pubblicazione, dichiarando che l’amato congiunto nella sua veste di attivista, da morto, avrebbe attirato più attenzione che da vivo e la sua condizione di sofferente avrebbe forse un poco squarciato il nebbioso velo di disinformazione e disinteresse verso quella che fu definita la peste del XX secolo ed allora, essendovi piena consapevolezza da parte del soggetto ritratto, dell’utilizzo finale dello scatto, sembrerebbe non esservi alcuna lesione dei diritti individuali alla privacy.
Però il senso etico comune porta a definire questa accondiscendenza, quasi una connivenza e pertanto redarguibile, per aver compiuto un simile atto, perché l’individuo non appartiene interamente a se stesso, ma è parte di una più ampia entità che è il genere umano e in quest’ottica ha il dovere di vivere e di morire in ossequio e ottemperanza alle norme morali del consorzio umano.
Ecco quindi che la violazione dei diritti individuali diventa, al tempo stesso, violazione dei diritti dell’uomo in senso generale e l’offesa è arrecata non solo al singolo individuo, ma estesa a tutti gli uomini, perché la mercificazione dei più alti assunti esistenziali, dei quali la morte è l’elemento di maggior spicco è decisamente esecrabile e stridente al contatto con le basi elementari dell’etica che richiedono, all’atto del trapasso, discrezionalità, riserbo intellettuale e totale concentrazione spirituale, essendo il momento unico, irripetibile e in taluni casi rappresentativo di tutta una vita trascorsa.
Una morte cui è rubata la dignità e il cui senso viene travisato può cancellare tutto quello che di buono c’è stato nel corso di una vita.
Nella foto, oggetto della presente dissertazione, il senso di critica feroce per aver attentato ai fondamentali principi etici e aver creato un’atmosfera di dubbio e smarrimento, fu riconosciuto quasi universalmente, infatti, la maggior parte dei media cui la foto fu offerta, ne rifiutò la pubblicazione e le poche testate che l'accolsero riuscirono a scatenare una valanga di proteste, tanto da far entrare la campagna pubblicitaria nel Guinness dei primati, come la campagna pubblicitaria più controversa di sempre. Comunque Toscani e Kalman ottennero quello che avevano cercato, perché il clamore che la fotografia suscitò fu di portata mondiale e machiavellicamente l’obiettivo fu raggiunto. Del resto in The picture of Dorian Gray, Oscar Wilde scrive la famosa frase: "There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about".
Il tacere è sempre più dannoso del parlare, non c'è dubbio!
A conclusione si dirà quindi che i principi che determinano l’etica professionale di un fotografo non sono legati alle immagini prodotte, ma vanno ascritti all’uso che di esse se ne fa.
Ogni atto umano contiene, potenzialmente in sé, ogni possibile interpretazione e coinvolgimento etico.
Niente di per sé è immorale, niente è contrario ai principi spirituali. E’ il nostro senso di discernimento che crea lo spartiacque tra il giusto e lo sbagliato, tra il corretto e lo scorretto. Immorale e contrario all’etica è cercare di manipolare la nostra capacità di giudizio, depistandoci su strade improprie nel raggiungimento di una sintesi concettuale autonoma, non determinata da condizionamenti esterni e il minimo indispensabile cui eticamente possiamo tendere è quello di attivare un sano e responsabile comportamento critico rispetto a chi o cosa viene fotografato.
Fonti
Roland Barthes - La chambre claire
John Tagg - The burden of representation, essays on photographies and histories
Susan Sontag - AIDS and its metaphor
Susan Sontag - On photography
Fred Ritchin - After photography
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