Il romanzo come la cipolla
- Belisario Righi
- 18 mar 2021
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 11 mar
DI BELISARIO RIGHI
Leggendo dei romanzi, molto spesso m’imbatto in grandi scrittori, o almeno ritenuti tali, di cui però non riesco a capire il senso di quello che scrivono.
Mi spiego meglio.
Alcuni libri sono scritti in maniera chiara, la prosa è scorrevole, di facile lettura e mi piacciono. Comprendo benissimo quello che gli scrittori intendono dire con il loro romanzo, però non andando a fondo nell’argomentazione non mi inducono a pensare, non mi offrono spunti di riflessione.
Quando, nella lettura di un libro di questo genere, arrivo alla fine della storia, per bella che possa essere, non mi resta niente, addirittura dopo qualche tempo perfino il suo titolo non mi evoca alcunché, l’argomento l’ho totalmente dimenticato.
Il libro nella mia memoria è diventato una scatola vuota e questo perché, non mi ha coinvolto in considerazioni semantiche, filosofiche o, che so, morali, anche se l’autore nel narrare la vicenda è stato bravo.
Ci sono scrittori famosissimi dei quali non ho afferrato il loro pensiero, la loro filosofia, e di questa incomprensione voglio farmene carico io, assolutamente non addebitandola agli autori, ma tant’è, e il senso di vuoto mi delude.
A solo titolo di esempio cito Ernest Hemingway, dotato di una prosa superba, di uno stile asciutto ed incisivo, grandissimo scrittore insignito del Nobel. I suoi libri si leggono benissimo, sono piacevolissimi, però ad eccezione di Il Vecchio e il mare e forse anche di Festa mobile, non ho trovato in altri suoi lavori dei grossi significati.
Per contraltare ci sono scrittori che cercano di dire tante cose, o forse semplicemente le sottintendono, ma non si riesce a penetrare nel loro modo di esprimersi, a partecipare alle loro storie perché sono colme di incongruenze. Scrittori di questo tipo, definiti “scrittori complessi”, si prodigano in frasi che non si legano, generando periodi che non hanno senso logico.
Di William Faulkner, altro grande scrittore, premio Nobel, ho provato a leggere, Mentre morivo e Fumo. Mi sono arenato non so quante volte, per mancanza, a mio avviso, di chiarezza nell’esposizione dei testi, quanto meno per una voluta confusione espositiva. Mi domando perché scrivere così?
Dirò di più.
Tra la categoria di scrittori che non si inabissano nel pensiero e quella nella quale c’è l’intento di produrre un’opera di grande significato, ma ahimè incomprensibile, preferisco la prima, ovvero prediligo romanzi, dove non si va alla ricerca di grandi e sotterranei significati, scritti però in maniera chiara e comprensibile.
Non mi soffermo poi a parlare di quei romanzieri che non solo scrivono in modo ostico ma anche male, tuttavia ringraziando Iddio questi sono piuttosto rari.
Ho sempre pensato che un romanzo, mi si scusi la metafora forse volgare, dovrebbe essere come una cipolla.
La cipolla è fatta di tante sfoglie. Si parte dalla prima, la più dura, che potremmo definire la corteccia per poi passare ad altri strati fino ad arrivare al nocciolo centrale e la cipolla finisce lì, ma man mano che ci addentriamo al suo interno, solo all’ultima membrana arriveremo al suo cuore, alla sua parte più nobile, più tenera, più saporita, dove troveremo la sua vera essenza.
Un libro dovrebbe essere fatto così.
La prima sfoglia del libro è la copertina che non ha alcun valore, è il suo involucro, serve soltanto a creare la forma fisica dello scritto, dandoci alcune informazioni essenziali, dapprima il titolo che ha lo scopo di accendere nell’animo del lettore curiosità e interesse e poi il nome dell’autore e quello dell’editore, importante quanto quello dello scrittore, perché sappiamo tutti che determinati editori pubblicano principalmente libri di spessore, per un pubblico che cerca qualcosa di più della storiella. Poi, vi sono alcune pagine riportanti informazioni editoriali e a volte anche una prefazione, che tra l’altro raramente si legge, perché si vuole entrare subito nel merito del discorso, senza interferenze. Forse sarebbe più utile una postfazione, ovvero un discorso non introduttivo, bensì critico e perché no esplicativo, ma comunque inserito dopo la parola "fine", perché sino a quando non si arriva alle ultime pagine e del libro non se ne conosce la conclusione, si rischia di essere incanalati in una linea di pensiero che non è nostra, si può essere fuorviati nell’analisi dello scritto e si può perdere il piacere della scoperta. Del resto, in un “giallo” amereste sapere, subito dopo le prime righe, il nome dell’assassino?
E infine c’è il testo. Ci sono le parole, quelle dell’autore. La parole sono importanti perché esprimono il contenuto, il significato del libro, creano la trama, il canovaccio, ma poi bisogna andarci dentro, scavare.
Il primo vero strato è appunto quella della parola, e il lettore deve toglierlo senza difficoltà per sapere cosa c’è sotto, e strato dopo strato deve andare sempre più a fondo, fino a far cadere l’ultimo velo e giungere al cuore dell’argomento.
Indispensabile pertanto perché un libro possa essere sfogliato, non nelle pagine, ma secondo il concetto metaforico della cipolla, è che i veli siano rimossi dalla penna dello scrittore, non da lavorii cerebrali del lettore, e quindi che sia scritto chiaramente.
Se inizio un racconto scrivendo “il cane mangia la carne” è chiaro il significato, non ci sono dubbi che il senso delle parole sia quello che immediatamente emerge dalla lettura. Ma il significato profondo, nascosto quale è? Cosa intendo dire? Non intendo dire niente. Faccio solo una constatazione. Le parole non danno adito ad arrovellamenti di cervello nella ricerca di eventuali interpretazioni criptiche.
Se iniziassi invece con lo scrivere “il cane mangia musica”, è evidente che voglio dire qualcosa, però se non è chiaro il concetto di queste parole, ci si trova immediatamente di fronte ad una barriera che impedisce di inoltrarsi nella narrazione, perché si è già frastornati dalle prime parole. E’ il caso questo di illustri scrittori tipo William Faulkner, Henry Miller, Jorge Luis Borges, per citarne alcuni, mentre l’uso di frasi, dirette, costruite chiaramente, permettono speditamente l’esegesi del testo.
Pensiamo a Friedrich Nietzsche. La sua frase più famosa: “Dio è morto”. Molto possibilista nell'interpretazione filosofica, ma altrettanto chiara nell’accezione letteraria delle parole. Il primo velo Nietzsche l’ha lasciato cadere subito, perché si comprende benissimo che Dio non c’è più, ma subito dopo si comincia a riflettere sul perché Dio non esista più. Dio non può essere morto, perché Dio non muore. Quindi il primo problema è: perché è stato scritto questo? Cosa intendono dire queste parole? E’ forse morto per me? È morto per la società? La società non crede più in Dio? Oppure per Dio s’intende che la triade Padre, Figlio e Spirito Santo, sia morta nell’affetto delle genti che non osservando più la religione cattolica si siano indirizzati verso un altro credo? Sono tante le chiavi di lettura. Quindi anche scrivendo in maniera lineare si può insinuare nel lettore una serie di pensieri profondissimi.
Il mio scrittore preferito è Hermann Hesse perché scrive in maniera talmente semplice da rendere la sua prosa scorrevole, senza ricorrere all’uso di disquisizioni ermetiche, o di neologismi come fanno altri autorevoli artisti, tanto per citarne uno, Gesualdo Bufalino, il cui libro Diceria dell’untore è stupendo, e su questo non c’è ombra di dubbio, però che fatica si fa a leggerlo, con tutte quei termini, di uso non comune, a volte inventati, che non si trovano nemmeno sul vocabolario.
Stessa cosa per Umberto Eco. Certo, Eco da grande filologo quale era, conosceva milioni di parole e molto spesso usava le più strane, e allora anche con lui, che fatica! Hesse no, pur essendo di cultura smisurata adottava un lessico preso a prestito dal linguaggio parlato, eppure la sua vis filosofica è molto consistente. Dietro le sue parole c’è un pensiero vasto e profondo, tutta una scuola di vita, il modo di affrontare i problemi della vita stessa. Basti pensare a Narciso e Boccadoro, a Siddharta, o più ancora al Gioco delle perle di vetro.
Questo intendo dire.
Uno scrittore, secondo il mio avviso, deve prima di tutto essere chiaro nell'esprimersi in modo da non creare problemi nell’approccio con la lettura, non deve far arenare subito il lettore che, al contrario, dopo aver compreso lucidamente, dovrebbe iniziare a ragionare, a riflettere sulle frasi, come avviene in certi aforismi, vergati con parole semplicissime che però inducono a ponderare sull'essenza che celano.
E’ indispensabile che un libro abbia questa caratteristica.
E poi, ogni tanto poi capitano scrittori che sono una gioia, perché scrivendo in maniera perfetta e trasparente, tale da permettere di seguire i periodi facilmente sì che tutto sia chiaro, hanno anche la valenza di parlare di argomenti che mettono in sintonia con un mondo che esulando dalle parole si astrae da esse, e da ultimo scrivono in maniera elegante.
Quando ci si avvicina ad uno di questi geni, è una festa.
Io ne ho incontrati pochi, Anatole France, Andrè Gide, anch'essi decorati del Premio Nobel. Taide di France e La Sinfonia pastorale di Gide sono tra i libri più belli che abbia mai letto. Non voglio dimenticare Marcel Proust, sebbene sia un po’ prolisso, ma certamente le sue pagine sono di una bellezza e compiutezza ineguagliabili. Anche Lev Tolstoj annovero tra questi, un po’ meno Fedor Dostoevskij che appartiene ad un’altra categoria, grandissimo anch’egli, ma non particolarmente elegante, pur scrivendo in maniera profonda, sul genere di Franz Kafka.
Voglio terminare con il brano di una lettera, che compendia il mio concetto sugli scrittori cosiddetti "complessi", scritta da H. G. Welles nel 1928 a James Joyce, altro grandissimo scrittore “complesso”.
“ … Lei ha voltato le spalle all’uomo comune, alle sue esigenze elementari e al suo tempo e al suo cervello, ed ha costruito. Che cosa? Enormi sciarade. I suoi ultimi libri sono stati molto più divertenti ed eccitanti a scriversi di quanto saranno mai a leggersi. Mi prenda come tipico lettore comune. Ho ricavato molto piacere da quest’opera (Ulisse)? … No. Sicché mi chiedo: chi diavolo è questo Joyce che pretende da me tante ore di veglia delle poche migliaia che mi restano da vivere, per apprezzare convenientemente le sue arguzie e fantasie ed i suoi sfavillii d’esecu-zione?
Tutto questo dal mio punto di vista. Forse ha ragione lei ed io ho torto marcio.
La sua opera è un esperimento straordinario e io non vorrei davvero causare un’interruzione che potrebbe essere deleteria. Ha i suoi credenti ed i suoi seguaci. Che essi ne gioiscano. Per me è un vicolo cieco… ”.
Da Richard Ellmann, James Joyce, Milano. Feltrinelli, 1964.
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