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Sogno ad occhi aperti

Aggiornamento: 11 mar

DI BELISARIO RIGHI



Ho viaggiato molto in India, soprattutto nella parte centro-settentrionale, dove vi sono le città più belle, più antiche. Nel mio terzo viaggio, nel 1979, volli visitare il Rajasthan, stato dell’India del Nord, situato ad Ovest di New Delhi.

Il Rajasthan con una superficie di 340.000 Km quadrati, più grande dell’Italia, si estende verso il Pakistan, con cui condivide il grande deserto del Thar. Ha un’alta densità di popolazione, sebbene per la maggior parte il suo territorio sia arido e desertico. La capitale è Jaipur, conosciuta come la città rosa per il caratteristico colore delle sue raffinate architetture Maru-Gurjara, dove dopo due giorni di permanenza, da alcuni turisti sentii parlare del Tempio delle scimmie a Galtaji, distante appena una decina di chilometri dalla città.

Veduta odierna di Galtaji

Galtaji - Come è oggi


Immagine delle sacre scimmie del Tempio.

Le scimmie del Tempio


Dovevo andarci, e lo stesso giorno, di pomeriggio presi un bus.

All’imbrunire, sotto un cielo blu, alla fine di una gola dalle pareti scoscese, dove incessante risuonava il gracchiare dei corvi, facendomi strada in mezzo a cammelli, mucche e scimmie, in una piccola valle immersa nella vastità del deserto, mi apparve


La valle, nel Rajasthan, dove si trova Galtaji.

Valle di Galtaji


Galtaji, antico luogo di pellegrinaggio indù, in tutto lo splendore delle sue rovine e dei suoi templi, immersa per metà nella sabbia.


Galtaji nel 1979, quando gli scavi archeologici erano iniziati da poco.

Galtaji - Come era nel 1979


Degli uomini stavano scavando, per portare alla luce le vestigia dell’antica città, ancora integra e conservata nel tempo.

Dovevano essere passati molti secoli da quel giorno, quando un solitario pellegrino pose, su di un'improvvisata ara, il suo Ganesh di pietra, intorno al quale altri pellegrini si riunirono in preghiera e posero le prime basi della città, eppure quel giorno non mi sembrava lontano, perché mi pareva ancora di sentire nella valle la preghiera di quei fedeli.

Intorno, le rocce millenarie assistevano mute e immobili a questi nuovi, umani, muta-menti, chiedendosi perché si volesse strappare alla morsa del deserto una città che, solo pochi secoli prima, vi era stata abbandonata.

A quei sassi, la domanda restava senza risposta, non potevano capire il cuore del genere umano, che sempre ritorna sulle proprie decisioni e mai assume un atteggiamento definitivo e irreprensibile verso la storia.

Di lì a pochi chilometri, si apriva il deserto in direzione di Jaisalmer dove, tremolanti nella calura, con gli occhi dell'immaginazione vidi arrivare, sui loro bianchi cavalli arabi, guerrieri ottomani, afghani, iracheni, belucistani e persiani che portavano l’Islam nella terra di Brahma.

Soltanto sabbia c’era in ogni direzione.

Una regione di sola polvere e a far quello non era stato il mare o una perpetua siccità, era stato soltanto il tempo, soltanto l’immutabile trascorrere degli anni aveva ucciso quel lembo di natura, dove ormai neanche gli avvoltoi nidificavano più.

Era quello il Rajasthan, la terra dei principi, dove avrei voluto trovare la pietra filosofale, la chiave della conoscenza.

In quelle latitudini, non influenzate dalle trasformazioni del mondo, avvicinarmi a Dio, mi era più congeniale e più facilmente avrei potuto cogliere l’intima e profonda metamorfosi che volevo avvenisse in me.

La solitudine e l’immensità di quei posti mi facevano sentire smarrito, ma di questo ero cosciente, infatti, per dirla con Hesse, come non provare sgomento, nel trovarsi di fronte ad un'opera composta di infiniti libri, disposti in una biblioteca talmente grande da non riuscire a scorgerne i confini? Si intuisce subito che non si riuscirà mai a leggere né il primo, né l’ultimo dei volumi, sicché di quest’opera, mai si conoscerà il principio e nemmeno la fine.

Però, leggendo un po' qua, un po' là, frammentariamente, se ne potrà forse percepire il respiro e se di questo respiro si riuscirà a fare parte, se non si trionferà, si sarà almeno partecipato al trionfo.

D'altronde, essere ospiti al tavolo degli dei, non significa quantomeno avere affinità divine?

Ma ecco che improvvisamente, forse preda della sindrome di Stendhal, nella mia mente presero vita delle visioni. Sulla sabbia del deserto, sopra un’altissima duna, con il sole a mezzogiorno, in un'atmosfera rarefatta e tremolante, una schiera di carri armati avanzava lentamente conquistando la vetta, stagliando contro il cielo cannoni e mitragliatrici.

Dall’altro lato della duna, in senso opposto, al galoppo, uomini a cavallo, con i turbanti e le tuniche fluttuanti nell’aria che sapeva di sudore e di guerra, si scontravano sulla cresta, sciabole in mano, con i carri armati.

Le fulgide spade tagliavano come burro le spesse lamiere di acciaio dei carri, mentre cannoni e mitraglie cercavano di soffocare l’attacco.

Motori che s'imballavano e cavalli bianchi che nitrivano e scalpitavano, conquistando nuove posizioni in mezzo alla cortina di fumo e di polvere, si stavano ammassando producendo una mistura di detriti fumanti, carne bruciata e sangue che bolliva sulle lamiere incendiate.

L’incalzare dei carri armati era enorme, ma non da meno era la forza del Verbo di Allah, l’Onnipotente, e la massa lugubre di spoglie si sollevò da terra in una tromba d’aria che si ruppe nel cielo, vomitando, valvole, manovelle, femori, orecchie, sangue e benzina.

Poi il silenzio, atroce ed eterno e infine il solitario e doloroso canto del muezzin che, lamentandosi nel freddo del deserto, invocava ad Allah il perdono per il sangue versato, mentre i corvi, i cammelli, le scimmie, gli animali tutti, con la loro presenza beatificavano Brahma, il Signore dell’Universo a cui tutto si riconduce.

Come ogni sogno, anche questo mio durò pochi secondi, ma in quei brevi istanti, credetti di comprendere il significato dell’esistenza, che non è quello di vivere in mezzo agli altri, ma quello di vivere con gli altri, far parte del tutto, per non essere un coriandolo spazzato via da un alito di vento.

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